Attacco di panico: il piacere sottratto

Scritto dal Dott. Marco Montanari Psicologo – Psicoterapeuta, Integrazione Posturale pubblicato sulla rivista medica Miafarmacia magazine.

Sempre più elevato è il numero di persone che in Italia soffre di attacchi di panico. Generalmente il primo Attacco di Panico è inaspettato, cioè si manifesta “a ciel sereno”, per cui ci si spaventa enormemente e, spesso, si ricorre al pronto soccorso. Tachicardia, sudorazione improvvisa, tremore, sensazione di soffocamento, dolore al petto, nausea, paura di morire o di impazzire, brividi o vampate di calore, sono solo alcuni dei sintomi che caratterizzano un attacco di panico.In altri termini, persone che soffrono di questi sintomi hanno paura di impazzire, avere un attacco cardiaco, scoprirsi malate.

E’ un sentimento molto angosciante e fonte di grande tormento. Il rischio in questi casi è di vivere confinati in casa, sempre più limitati nelle proprie attività, per paura che si ripresenti.

L’evitamento di tutte le situazioni potenzialmente ansiogene diviene la modalità prevalente e in questo modo si diviene schiavi del disturbo. La parola panico deriva dalla divinità greca “Pan”, rappresentato nella mitologia come un dio potente e selvaggio, esteriormente raffigurato con corna caprine, zampe irsute e zoccoli, busto umano e il volto barbuto dall’espressione terribile. La leggenda narra che, non potendo coronare il suo amore con Ladone, Pan torna a vagare nei boschi correndo e danzando con le ninfe e spaventando i viandanti che attraversano le selve. Al dio Pan infatti si attribuivano i rumori di origine inesplicabile che si sentivano nella notte della foresta e, dalla paura che esso causava, deriva il cosiddetto “timor panico”. Nel racconto mitologico è significativo il modo in cui i viandanti si perdevano nel bosco e non ritrovavano più loro stessi. Questo è quello che accade nell’attacco di panico, in cui il soggetto sente di perdere la propria identità in “tutti i sensi”. Tra i diversi stati d’animo, di paura, di ansia e di panico, si può dire che il panico è quello che più porta a smarrire il senso di realtà; nel momento in cui si sperimenta si è sopraffatti da emozioni, da sensazioni fortissime e incontrollate. Di solito dopo il primo attacco di panico le sensazioni che seguono nei successivi attacchi sono dette di “ansia allarme”, ovvero sia ci si allarma che possa succedere un nuovo episodio. Il vero attacco di panico diventa quindi un singolo episodio nella vita ed è correlato ad un fattore scatenante esterno. Successivamente ci si preoccupa delle possibili implicazioni e conseguenze degli attacchi di panico e si cambia il proprio comportamento in conseguenza ad essi, principalmente evitando le situazioni in cui si teme possano verificarsi. Questi comportamenti “protettivi”non sono effettivamente efficaci per la risoluzione del disturbo. Le strategie protettive possono essere interpretate come “la prova” che l’evento temuto stia realmente per accadere e sia realmente pericoloso, oltre che inasprire gli stessi sintomi somatici manifesti. Per esempio, il controllo del ritmo respiratorio può indurre iperventilazione e aggravare i possibili sintomi associati ad uno stato di alcalosi respiratoria. Il tentativo di controllare certi pensieri può indurre il risultato paradossale di un aumento dello stato di ansia e di una riduzione della propria capacità di controllo. Anche nel caso in cui un comportamento protettivo fosse efficace, il mancato palesarsi delle conseguenze temute può erroneamente essere attribuito alla messa in atto di strategie protettive piuttosto che ad una visione chiara della realtà, che permette di attribuire correttamente l’improbabilità che tali catastrofiche conseguenze si avverino. Possiamo tranquillizzare i lettori che soffrono di queste manifestazioni: di attacchi di panico non si muore; il panico causa temporanei incrementi della pressione sanguinea allo stesso modo di un esercizio fisico indicato per il benessere cardiovascolare. Il problema sussiste solamente nel caso in cui la pressione sanguinea sia costantemente alta. Quindi “niente panico” per chi ha sempre creduto che l’attacco causi reali problemi al cuore.

L’ansia ed il panico sono associati alla secrezione di adrenalina, sostanza che viene somministrata in situazioni dove bisogna riattivare le funzioni cardiache e non fermarle, come nei rischi di infarto. L’attacco di panico, inoltre, non causa l’edema polmonare che è motivo di soffocamento. Occorre aggiungere che il panico è collegato ad un’esperienza interiore che non è ancora avvenuta, ma che si anticipa e si teme. Quindi suoi correlati sono spesso delle fantasie distruttive, sui cui contenuti è possibile lavorare appronditamente in psicoterapia. L’attacco di panico, come ogni forma di ansia, ci indica che stiamo abbandonato il presente per un immaginario viaggio verso il futuro. Essere ansiosi vuol dire non riuscire ad essere pienamente presenti nel “qui ed ora” e sostare nella fantasia o nel futuro. L’attacco di panico è una emozione sostitutiva che si verifica quando, volendo esprimerci, non possiamo lasciare emergere quello che esiste dentro. L’eccitazione interna deve poter fluire in qualche forma di comportamento espressivo, dunque si favorisce il terreno per una manifestazione di panico. Se ritorniamo al presente, se ricominciamo a vedere e a sentire ciò che accade nel presente, può succedere che l’ansia diminuisca e scompaia. L’attacco di panico, dal punto di vista dell’esperienza, si può definire come “un’ interruzione” della stessa. Quando una persona inizia a sentire i sintomi di un attacco, sperimenta confusione e perdita di contatto con le sue reali sensazioni. Se indirizza nuovamente l’attenzione verso il contatto con quanto c’è intorno e quanto sente, spesso solo comunicando ciò , può sentirsi più calma. Si può dire dunque che nell’attacco di panico si crea un circolo vizioso: fattori esterni causano modificazioni di emozioni e pensieri, che causano modificazioni fisiologiche che causano interpretazioni erronee e di conseguenza ulteriori fantasie e pensieri. Per interrompere questo circolo vizioso occorre entrare da una delle porte delle quali esso è formato: sia essa quella delle emozioni, dei pensieri o del corpo. Gli episodi di panico si presentano inoltre come una forma di regressione, una sorta di reingresso del passato nel qui ed ora. Un passato che precipita nel presente può provocare uno stato di angoscia. La regressione può essere considerata come un tentativo di ritrovare quelle stesse difese usate contro ciò che veniva vissuto come minaccioso durante la crescita nei nostri primi anni di vita.

Ma dietro l’attacco di panico può nascondersi anche la paura della libertà e del cambiamento, perché con libertà e cambiamento si diventa responsabili delle proprie scelte, quindi si è “costretti” a crescere. Ecco perché quando si affronta l’attacco di panico occorre prendere in considerazione anche i vantaggi del sintomo, quelle condizioni cioè che favoriscono il perpetuare del sintomo come resistenze al cambiamento. Cambiamento che significa anche possibilità di provare piacere e di riacquistare ciò che più si è allontanato da noi rispetto ai bisogni basilari e naturali di affetto felicità e piacere. Una visione del mondo che, per chi accusa questi sintomi, è percepito come spaventevole e persecutorio, impossibile da godere, qualche cosa di “troppo” di insopportabile. Questo può spiegare perché gli attacchi di panico si manifestano frequentemente in situazioni neutre, di relativa tranquillità, o addirittura in momenti di relax e vacanza. Un aiuto psicoterapeutico in tal caso può essere molto fruttuoso, per riuscire ad accogliere i sintomi senza sentirsene più sopraffatti, per apprendere come gestire la propria ansia, e per darsi la possibilità di esprimere se stessi pienamente senza “farsi venire il panico”. Se vediamo l’energia dell’ansia come “energia libera in sospensione”, possiamo ravvisare la possibilità di ridarle un naturale fluire, un naturale lasciare scorrere, un originario abbandono che riporta al piacere autentico dell’essere presenti alla vita.

All’Istituto di Psicosintesi (Centro di Bologna, tel. 051 521656 , www.psicosintesibologna.it, bologna@psicosintesi.it) si organizzano corsi di gruppo su varie tematiche (ansia, attacchi di panico, psicosomatica, senso di colpa e vergogna, sessualità) e incontri psicologici individuali.

La Ferita Primaria

Scritto da Marco Montanari e Francesca Cipriani Cirelli Psicologi Psicoterapeuti. Pubblicato sulla rivista internazionale di psicosintesi Ottobre 2007.

Tanto si è scritto sulle ferite primarie, sui traumi infantili e sui nuclei inconsci da cui originano molte delle nostre sofferenze più profonde. Nell’immenso panorama odierno delle psicoterapie e dei percorsi di crescita personale, ho scoperto un’interessante visione sui traumi e sulla guarigione che integra in maniera formidabile la psicosintesi, le terapie transpersonali, la psicologia delle relazioni oggettuali e la psicoterapia del profondo.

Si tratta della visione psicosintetica di Firman J. e Gila A, coppia di psicoterapeuti californiani, che ho avuto il piacere di conoscere durante un seminario tenutosi a Firenze nel 2005. I due autori hanno “rivisitato” la teoria di R. Assagioli, creando quella che, a mio parere, è una delle più significative sintesi attualmente proposte tra la psicoterapia del profondo e la psicosintesi.  Il seguente articolo illustra brevemente questa innovativa visione.

Per approfondimenti si rimanda alla lettura del libro “La ferita primaria”, di John Firman e Ann Gila, ed. Pagnini e Martinelli, Firenze.

Sembra che la psicoanalisi, la psicologia analitica, la teoria degli attaccamenti e la psicologia umanistico esistenziale siano tutte concordi nel riconoscere che esiste in noi una ferita primaria causata dalla minaccia di fratture nelle relazioni significative. Questa ferita è la minaccia del non-essere ed è stata chiamata in diversi modi da diversi autori: annichilimento o annientamento personale (Winnicot), innominabile terrore e ansia di disgregazione (Kohut), colpa fondamentale (Balint), terrore fondamentale (Laing).

Secondo Firman e Gila la minaccia del non – essere non è insita nella natura umana, ma è originata da relazioni disturbate. Infatti, il fondamento dell’essere umano non è caratterizzato da un’unità indifferenziata, bensì da una relazione, quindi i “disturbi psichici” non sono causati dall’incapacità di differenziare il sé e l’altro da un’unità originaria, da una regressione o fissazione di fronte ad un arcaico stato di felicità, da un conflitto tra il principio di piacere e il principio di realtà o dalla difficoltà di separazione – individuazione da una matrice primaria.

La maggior parte dei disturbi psichici è essenzialmente il risultato di una frattura nell’originaria relazione Io – Sé, causata dal fallimento empatico di particolari Centri Unificatori. Questa frattura rappresenta la ferita originaria.

Raramente la relazione Io – Sé si realizza in pieno, e ciò è dovuto alla fallacia dei vari contesti di supporto, cioè dei vari Centri Unificatori.

Anche una famiglia apparentemente sana può, in modo non manifesto, provocare sofferenza nel bambino, a causa delle stesse ferite inconsce delle figure di riferimento. Queste ferite costituiscono dei punti deboli nella funzione di rispecchiamento dell’adulto significativo, che vanno a creare delle zone di non – essere nel bambino.

Se l’adulto è ferito a livello del nucleo la sua funzione empatica di mirroring sarà distorta o limitata e quindi il Sé del bambino ne rifletterà la ferita. Il trauma nascosto non è solo conseguenza di un comportamento esteriore, ma piuttosto il risultato di un rispecchiamento carente che va a produrre immagini distorte. Sembra quindi che lo spirito ferito dell’adulto non possa fare a meno di creare uno spirito ferito nel bambino, non importa quanto bene informati e attenti i genitori possano sembrare.

La ferita originaria rappresenta una sofferenza umana alla quale nessuno può sottrarsi ed a volte essa è così pervasiva, da avere inizio già nella vita intrauterina. Il feto è all’unisono con la madre e reagisce negativamente ad ogni suo atteggiamento di rifiuto, anche se lei stessa resta inconsapevole di questo atteggiamento.

In realtà sofferenza e dolore non sono patologici; è l’assenza di un’adeguata armonia e di una rispondenza alle reazioni emozionali dolorose del bambino che li rende intollerabili e, quindi, fonte di condizione traumatica e psicopatologica. La ferita del bambino non è causata dalla sofferenza in sé, ma dalla mancanza dell’altro empatico e quindi dalla minaccia di non – essere.

Mentre il dolore provoca stress all’organismo e, a volte, anche un rischio di morte, la ferita primaria implica annichilimento e senso di non – essere.

Ogni livello di crescita è assistito da un Centro Unificatore esterno, cioè da qualcuno fuori di noi che è funzionale al supporto della relazione Io – Sé.

L’esperienza con il centro esterno influenza lo sviluppo di un Centro Unificatore interno che finisce con l’adempiere a molte delle funzioni di quello esterno. Il Centro interno, ad esempio, può essere sperimentato come una presenza interiore reale (come quando una persona interiormente sente l’incoraggiamento ed il consiglio di un genitore o di una guida).

Quando un Centro Unificatore esterno fallisce come “altro empatico”, la connessione Io – Sé viene disturbata, la linea di ossigeno che ci lega alla fonte dell’essere viene minacciata e dobbiamo affrontare una precipitosa caduta dall’universo, un tuffo nel nulla, un apparente rifiuto da parte della Fonte dell’Essere.

Questa contraddizione a livello cosciente è intollerabile, per cui il soggetto opera come meccanismo difensivo una scissione della psiche tra un settore negativo ed uno positivo. Comincia quindi a vivere in due mondi diversi, uno fatto di traumi ed uno di sicurezza e non permette che l’uno interferisca con l’altro.

Questa scissione è molto profonda, e infatti non scindiamo solo il Centro Unificatore (ad es., madre buona / madre cattiva), ma anche lo stesso senso di Sé.

Quando cadiamo nell’influenza del Centro Unificatore negativo, sentiamo di essere cattivi, indegni e odiati, e perciò assumiamo un’identità negativa; quando invece ci sentiamo connessi al Centro Unificatore positivo, ci percepiamo buoni, degni e amati, ed assumiamo un’identità positiva. Queste due identità vanno a formare la personalità positiva e la personalità negativa.

Il trauma del non – essere spezza la continuità dell’essere, ma non interrompe realmente la connessione Io – Sé. Esso però porta l’individuo a scindere le esperienze di dolore e di bellezza, di trauma e di idealizzazione e più il settore negativo si sviluppa a causa di fallimenti empatici, più si ha bisogno di un settore positivo di compensazione. Quindi in noi è presente sia un’Ombra negativa che un’Ombra positiva (ad es., se nella psiche è presente un inconscio ricordo abbandonico è al contempo presente un’inconscia speranza di unione perfetta). Dunque, oltre alla repressione del negativo è presente una proporzionale repressione del positivo.

Anche se il settore negativo sembra più correlato alla ferita originaria e quello positivo più attinente alla relazione Io – Sé, in realtà entrambi i settori sono condizionati dal sotteso trauma, rappresentano entrambi distorsioni della relazione Io – Sé e non esisterebbero nel loro isolamento se non fosse per la ferita originaria. Entrambi i settori sono componenti della nostra esperienza autentica e l’inautenticità nasce dalla separazione tra i due aspetti dell’esperienza.

Solo quando i due settori entrano in relazione e si getta un ponte tra i due, emergono la minaccia del non – essere e la ferita sottesa. Ed è proprio in quel momento che la persona può cominciare a sanare la scissione presente nella personalità globale.

Questi settori “positivo” e “negativo” della personalità si possono definire rispettivamente inconscio superiore e inconscio inferiore.

Il modello della personalità di Firman e Gila è di tipo anulare: significa che in ogni età psichica può presentarsi la minaccia del non – essere.

L’annichilimento personale è impensabile, inammissibile e terrificante: provoca sentimenti di vuoto, isolamento, abbandono, ansia di disgregazione, falsità, vergogna, colpa, indegnità, esilio, ecc. Questa esperienza tende a legarsi ad esperienze analoghe nel tempo, creando nella personalità catene ininterrotte di memorie simili.

L’uomo in un certo senso preferisce affrontare la “dannazione” piuttosto che confrontarsi col non – essere, con la non relazione.

E’ interessante paragonare le descrizioni delle esperienze di annichilimento a quelle suscitate invece dalle qualità transpersonali prodotte dall’inconscio superiore (verità, bellezza, vitalità, spontaneità, gioia, felicità, luce, amore, fiducia, saggezza, ecc.). Il contrasto è impressionante e c’è un abisso che separa queste due esperienze di vita umana.

Comunque il fondamento è dato dalle ferite relazionali e non tanto dall’inconscio superiore o inferiore. Queste difese servono a mantenere la scissione primaria, seppellendo così la ferita originaria e questa dolorosa alternanza di positivo e negativo è preferibile al non – essere.

La ferita originaria è una frattura nella connessione Io-Sé provocata da un centro unificatore non empatico, dunque per evitare l’esperienza di annichilimento dobbiamo diventare ciò che ci viene richiesto (ad es., invece di essere “me” devo diventare quello che è destinato a salvare la madre da una vita priva di significato o da un matrimonio difficile).

Questa mancanza di connessione empatica porta ad uno sconvolgimento violento nello sbocciare del senso dell’Io nello spazio e nel tempo e ad una mutilazione della personalità autentica. Nascondiamo la nostra natura e diventiamo ciò che l’ambiente richiede: una personalità di sopravvivenza o Falso Sé, che rappresenta il tentativo di creare un qualche senso di sé di fronte a una potenziale caduta nel pozzo della non esistenza.

La personalità di sopravvivenza per esistere deve essere correlata ad un centro unificatore di sopravvivenza, deve cioè avere la propria relazione oggettuale da cui trarre esistenza. Il centro unificatore di sopravvivenza è il magazzino delle regole familiari costrittive (ad es., “non si parla mai della famiglia con gli estranei”, “non si esterna la felicità perché il pericolo è dietro l’angolo”). Disobbedire al Centro Unificatore di sopravvivenza può dar luogo a disperazione, senso di inadeguatezza, paura della punizione, ovvero sia può far nascere una “colpa di sopravvivenza”. Questo perché in ogni famiglia è presente un contratto di sopravvivenza, nel quale abbiamo contrattato “di vendere l’anima” (o almeno di scinderla) per riuscire a sopravvivere.

Se cominciamo a trasgredire al contratto di sopravvivenza si viene a creare uno stato di tensione con il relativo Centro Unificatore e proviamo colpa e vergogna. Tentando di rompere il contratto disturbiamo la nostra linea di ossigeno e ci troviamo di fronte alla più profonda minaccia del non – essere.

Ogni passo verso una maggiore autenticità può essere vissuto come un tradimento di qualche antico voto sacro, la rottura di un tabù tribale, la violazione del contratto di sopravvivenza.

Quando siamo connessi al Centro Unificatore di sopravvivenza accade una cosa molto strana: cadiamo in trance.

Un soggetto ipnotizzato può anche sperimentare il libero arbitrio, ma l’esercizio di consapevolezza e volontà è in realtà fortemente condizionato dall’ipnotizzatore. Solo che a differenza dell’ipnosi, il centro unificatore di sopravvivenza non ci ipnotizza per un tempo limitato; possiamo essere concepiti, nati e maturati totalmente immersi in questa trance fondamentale e pregnante. Dato che poi il centro unificatore di sopravvivenza interno è dentro di noi, la trance può durare per l’intera esistenza.

Volendo esemplificare, quando una paziente inizia l’analisi dicendo “ho avuto la madre migliore della terra” (e poi si scopre il contrario) si comprende che c’è stata una specie di suggestione post – ipnotica. La trance è così pervasiva e potente perché se la si elimina si infrange la continuità dell’essere. Ammettere che la propria madre non è la migliore della terra significa sperimentarsi al di fuori del centro unificatore materno, tagliarsi fuori dall’ambiente di sostegno e dalla vera fonte dell’esistenza, soli e abbandonati a fronteggiare un potenziale nulla. La persona si trova cioè di fronte alla morte vudù in seguito all’infrazione di un tabù tribale.

Il centro unificatore autentico invece rappresenta quel centro che riflette abbastanza fedelmente il Sé, così da favorire il dispiegarsi della personalità autentica. In esso è presente una consapevolezza e un senso di intima connessione con un altro empatico che ci vede, ci conosce e ci accetta per quel che siamo.

Mentre il centro unificatore di sopravvivenza infligge ferite, esigendo che poi vengano nascoste, il centro unificatore autentico accetta queste ferite e cerca di risanarle. Quando siamo connessi col centro unificatore autentico non sentiamo più il bisogno di nascondere e di compensare le nostre ferite, ma possiamo riconoscerle ed accettarle come parte dell’esperienza di vita. Questa crescente apertura è indicata da Assagioli come un’espansione dell’inconscio medio, dove non sperimentiamo necessariamente una maggiore armonia e bellezza, ma un maggiore “senso di me”. Quest’espansione dell’inconscio medio è una ricomposizione della scissione originaria.

In questo modello, ciò che è primario non sono la rabbia e l’ansia, ma la ferita che le ha causate.

Riconoscere la centralità della ferita originaria rispetto ai problemi psichici naturalmente non ci libera dalla responsabilità delle nostre reazioni a questa ferita.

Non siamo responsabili della ferita (insight cruciale per la guarigione), ma abbiamo la piena responsabilità delle nostre reazioni a questa ferita e quindi di ogni danno causato a se stessi e agli altri se reagiamo con ansia, dolore e rabbia.

Comprendere che a un livello fondamentale siamo vittime è diverso dal rimproverare gli altri per le nostre condizioni di vita e giustificare comportamenti che vanno dalla dipendenza aggressiva alla violenza fisica.

Accettare la ferita non significa entrare nel ruolo di vittima, ma entrare in contatto con una realtà fondamentale da cui iniziare il processo di guarigione.

In psicoterapia si possono affrontare gli abissi delle ferite dell’inconscio inferiore, abreagire ricordi di abuso infantile, disidentificarsi dalle molteplici diverse subpersonalità, spostarsi alle altezze dell’inconscio superiore e fare tutto questo mantenendo intatta la personalità di sopravvivenza! La terapia può andare avanti per sempre senza mai raggiungere il nucleo dell’identità personale. Winnicot sottolinea come il Falso Sé può talvolta simulare il Vero Sé in modo perfetto.

In psicosintesi la relazione empatica tra terapeuta e paziente è fondamentale.

Attraverso l’empatia il paziente può sperimentare i primi sentimenti di abbandono, solitudine, ansia, impotenza e rabbia, senza dover proteggere i genitori da questi sentimenti, perché con l’aiuto del terapeuta si renderà conto che i sentimenti non uccidono.

I livelli infantili dell’adulto non includono una comprensione adulta delle difficoltà dei caregiver e come terapeuti non dobbiamo costringere il paziente verso questa direzione.

Al paziente va concesso il giusto dolore e la giusta rabbia presente nella persona debole e dipendente che è stata tradita. Questo non significa rimproverare i genitori delle proprie difficoltà esistenziali, ma si tratta di connettersi alla verità esperenziale delle proprie radici infantili, ricontattando la direzionalità della propria personalità autentica.

Il terapeuta può anche rispecchiare l’aspetto adulto del paziente in relazione all’emergere delle ferite infantili. Pur convalidando la prospettiva adulta deve però richiedere che al bambino sia permessa la piena e libera esperienza dal proprio punto di vista. Quest’intervento permette il dispiegarsi dell’esperienza infantile e modella la connessione empatica tra adulto e bambino con un potere risanante.

Il modello proposto da Firman e Gila è un modello concentrico: ogni cosa che abbiamo vissuto rimane dentro di noi. Superare non significa perdere; tutto ciò che superiamo lo teniamo dentro di noi, senza reprimerlo o cancellarlo.

Il modello circolare rappresenta anche una coscienza che si espande col passare del tempo, perché “comprende” sempre più cose. Possiamo permetterci di sentire il bambino che è dentro di noi e metterci in relazione con lui, senza considerarla una regressione, bensì un’inclusione.

Empatizzare con le prime ferite significa anche evitare la tentazione di idealizzarle.

L’enfasi non va posta sul “guarire il bambino ferito”, perché porterebbe a trattare il bambino come un oggetto da aggiustare; l’obiettivo è invece quello di risanare la relazione interrotta col bambino ferito.

La nostra empatia spirituale è l’unico modo per entrare in contatto con l’altra persona che è in trance. Le tecniche non fanno entrare in contatto con la trance. Con l’empatia spirituale diventiamo Centri Unificatori spirituali, ci colleghiamo direttamente alla fonte e così l’Io può emergere.

Il processo consta in due fasi principali che si compenetrano: nel primo stadio emerge l’Io (“chi sono io?”), nel secondo emerge il Sé (“dove sto andando?”).

Per Firman e Gila le fasi della guarigione, che avvengono in maniera naturale e se il paziente si sente amato, sono:

  • Fase 0 àsopravvivenza, in cui il paziente non è consapevole di chi si è veramente, funziona automaticamente e sperimenta un senso di vuoto.
  • Fase 1 à riconoscimento, in cui il paziente comincia a guardare al di sotto della personalità di sopravvivenza, anche se in un primo momento può essere sconcertante, perché chi pensava di essere originariamente svanisce. Esiste una potente lotta tra sopravvivenza e autenticità.
  • Fase 2 à accettazione, in cui il paziente si dovrebbe domandare: “posso accettare che questo è successo?” (ad es., “posso accettare che c’è un livello dentro di me che è stato abusato?”).

Quando ci identifichiamo con la sopravvivenza pensiamo di avere qualcosa che non va in noi (per es., i geni, la biochimica) e così facendo proteggiamo la nostra famiglia. Attraverso il rispecchiamento di un Centro Unificatore autentico possiamo arrivare alla consapevolezza di sentirci così a causa delle relazioni familiari pregresse. Ma la maggior parte delle persone accetta che c’è qualcosa che non va in se stesso, perché la personalità di sopravvivenza cerca di normalizzare la ferita.

· Fase 3 à sintesi, nella quale scopriamo che la nostra vocazione viene dalla ferita.

In psicoterapia il soggetto potrà sviluppare un Centro Unificatore interno autentico ed empatico dal quale poter guardare con amore tutti gli aspetti di sé, quelli negativi e quelli idealizzati, i suoi limiti e le sue potenzialità e “riflettere” così totalmente la sua verità (autentico principio risanante delle sue ferite).

Uno dei vantaggi della psicosintesi è riconoscere e convalidare entrambe le dimensioni e quindi confrontarsi con la scissione traumatica tra i due settori. La psicosintesi favorisce il rispecchiamento della persona nella sua globalità, affermando il senso di un Io in grado di affrontare sia le altezze che le profondità dell’esperienza umana

All’Istituto di Psicosintesi (Centro di Bologna, tel. 051 521656 , www.psicosintesibologna.it, bologna@psicosintesi.it) si organizzano corsi di gruppo su varie tematiche (ansia, attacchi di panico, psicosomatica, senso di colpa e vergogna, sessualità) e incontri psicologici individuali.

Buddismo e Psicosintesi: presenza nella realtà

Scritto da Marco Montanari e Francesca Cipriani Cirelli Psicologi Psicoterapeuti. Pubblicato sulla rivista internazionale di psicosintesi Aprile 2007

“Se, guardando nello spazio, non si vede nulla,
e se, allora, con la mente si osserva la mente,
si distrugge ogni distinzione
e si raggiunge la Buddità.

Le nubi vagano per il cielo
non han radici, non han casa;
e così sono anche i pensieri discriminanti
che attraversano la mente.
Quando si è vista la mente universale,
ogni discriminazione cessa.

Nello spazio nascono forme e colori,
ma lo spazio non è macchiato né dal bianco né dal nero.
Dalla mente universale emerge ogni cosa,
ma essa non è macchiata né dai vizi né dalle virtù”

(Osho Rajneesh)

Per il Buddismo esistono due mondi: il mondo della mente e il mondo della realtà. Il mondo della realtà è reale, mentre il mondo della mente non è reale. La stessa realtà ad alcuni procura sofferenza, mentre ad altri no. Quindi la sofferenza è prevalentemente soggettiva. Tanto più che la maggior parte delle volte noi soffriamo a causa dei fantasmi della nostra mente e non tanto per quello che accade nella realtà. Ad es., ci pre-occupiamo di quando saremo vecchi, ci allertiamo di cosa potrebbe succedere se il compagno o la compagna se ne andasse, ci angosciamo per la giornata di domani piena di impegni lavorativi, soffriamo perché quando eravamo piccoli non siamo stati amati, voluti, accuditi come avremmo desiderato noi.

In quella che nella psicologia classica viene chiamata “nevrosi” , i pensieri che procurano sofferenza costituiscono la quasi totalità dell’attività psichica. In termini psicosintetici, diremmo che quando soffriamo tanto è perché ci identifichiamo in maniera protratta in nostre subpersonalità o parti che inconsciamente prendono il posto della nostra centralità e noi viviamo come se fossimo completamente quelle parti. Un esempio: quando qualcuno ci esclude o si nega o non ci sta vicino in un momento in cui ci sentiamo bisognosi di attenzioni, possiamo cadere in vissuti abbandonici antichi, provando tutti quei sentimenti e quelle emozioni che fanno parte di un “tipico vissuto abbandonico”, quali la paura, l’angoscia, il senso di vuoto, la commiserazione, la rabbia, il desiderio di morire.

Quando un pensiero ci attraversa la coscienza noi assumiamo quel pensiero per vero e “diventiamo” quel pensiero. Il nostro Io tende ad identificarsi con pensieri, emozioni, immagini particolari, ne è come calamitato e questa calamita è potentissima, per cui per sottrarvisi occorre quello che nel buddismo è chiamato “retto sforzo” e che in psicosintesi corrisponde ad un “atto di volontà”.

La nostra reazione alle situazioni è condizionata dal passato, ma attraverso l’Io regista e la volontà noi possiamo svincolarci dal condizionamento. Il Budda è stato definito “il non condizionato” proprio in virtù del fatto che si è sottratto dai condizionamenti del passato.

Come indica la legge buddista di causa – effetto e le leggi psicologiche di R. Assagioli, i pensieri si riproducono e tendono a creare immagini ed emozioni ad esse corrispondenti; pensieri negativi mettono dunque semi per la crescita di piante velenose. La maggior parte delle emozioni scaturisce da un pensiero erroneo, il quale considera permanente ciò che in realtà è impermanente.

Sradicando le visioni errate, la sofferenza cessa. Il pensiero che produce sofferenza non è volontario, ovvero sia non è diretto dalla funzione volitiva. Nessuno si produce intenzionalmente sofferenza, neanche il masochista (il quale nel procurarsi sofferenza per ripararsi dai sensi di colpa, esalta l’Io e trova piacere nel dolore). Il pensiero e tutte le funzioni che ci procurano sofferenza lo fanno in maniera automatica ed inconscia.

Le nostre subpersonalità sono atteggiamenti inconsci che ci muovono e agiscono al di là della nostra consapevolezza. Le parti che ci ingabbiano, che non ci liberano, manifestano una tensione che deriva da blocchi, da traumi, da ferite ricevute in passato e che abbiamo registrato nella memoria. Osservare come un testimone i nostri pensieri e identificarsi con l’Io e non con le subpersonalità, toglie loro la carica emotiva e spezza la catena del loro autorafforzamento nella memoria e quindi della loro forza di riproduzione. Noi infatti siamo dominati da tutto ciò in cui ci identifichiamo e possiamo dominare tutto ciò da cui ci disidentifichiamo; per Assagioli è in questo principio che sta il segreto della nostra schiavitù o della nostra libertà.

Nel Buddismo l’osservatore non è il pensiero, ma è la coscienza, che non è coinvolta nella tensione che è presente nel pensiero.

Assagioli parla di un Io, di un Centro di pura autocoscienza e volontà, da cui è possibile conoscere, possedere e trasformare la sofferenza e gestire tutte le nostre funzioni.

Se concentriamo l’attenzione sul pensiero si osserva come esso nasce, cresce e muore, come esso è impermanente e come i suoi fantasmi non sono reali. Se spostiamo l’attenzione dalle fantasie della mente, possiamo rivolgerla al qui ed ora, a ciò che effettivamente c’è nella realtà. I pensieri, le emozioni, le sensazioni sono tutti stati impermanenti e mutevoli, a differenza del Sé che è stabile e permanente.

La coscienza è la sede naturale dell’energia psichica.

La pratica buddista stimola a realizzare cinque poteri, di cui siamo già dotati, ma che non usiamo:
il controllo della mente
la presenza nella realtà
la consapevolezza del cambiamento
il non attaccamento
l’amore universale.

Sono tutti aspetti che, come ha colto R. Assagioli nei suoi studi delle discipline e delle filosofie orientali, si applicano sia sul piano personale che transpersonale e che in psicosintesi vengono ben espressi sia nella mappatura della psiche, attraverso la stella delle funzioni e l’ovoide, dove l’Io è posto al centro e le funzioni (pensiero, emozioni, sentimenti, immaginazione, …) sono dirette da questo Centro integrante della personalità, sia nel processo di identificazione – disidentificazione – autoidentificazione, sia nel concetto di Sé, al contempo individuale ed universale.

Se prendiamo come esempio l’assunto buddista di “non attaccamento” vediamo quanto esso sia similare al concetto di disidentificazione. La sofferenza deriva spesso dall’attaccamento ad una situazione diversa da quella che c’è.

Non c’è niente di fisso a cui possiamo “attaccarci”. Una domanda che viene posta frequentemente quando si parla di disidentificazione in psicosintesi o di non attaccamento nel buddismo è la seguente: “ma allora dobbiamo imparare a staccarci dalle cose? Non possiamo più vivere pienamente gli eventi o le relazioni? Non dobbiamo affezionarci a niente perché tanto tutto muore o perché porta sofferenza?”.

In realtà il processo è esattamente il contrario. Il Budda accetta e gode di quello che c’è, non ha aspettative (che sono anch’esse causa di sofferenza). La consapevolezza della precarietà di ogni cosa ci permette di acquisire il potere di non attaccamento. La consapevolezza della precarietà della vita ci può fare apprezzare mille volte di più di prima l’unicità e la bellezza delle cose; ogni attimo diventa unico e irripetibile. Il non attaccamento consiste nel non pretendere ciò che non c’è e nell’apprezzare e godere ciò che c’è.

Pensiamo a tutte quelle situazioni di ipocondria, di preoccupazioni per il futuro, di angoscia per il passato, di timore della morte: anziché essere presenti a noi stessi, alla realtà e alla vita, ci difendiamo “andando altrove” con la mente. Ma quando la morte arriva sarebbe meglio che ci trovasse vivi!

Ci siamo dimenticati del tesoro che possediamo, in ciò consiste la nostra ignoranza. Tra noi e il Budda non c’è nessuna differenza: la sola differenza è che noi non ce lo ricordiamo, il Budda si. Siamo uguali, ma il Budda è sveglio, mentre noi siamo immersi nel sonno.

Ad essere un Budda si perdono molte cose: la sofferenza, l’angoscia, l’ambizione, la gelosia, l’odio, la violenza e si ottiene solo ciò che c’era già: si ricorda. Sempre in termini psicologici possiamo considerare lo stato di buddità come lo stato naturale di “non nevrosi”; la buddità è lo stato naturale, che essendo poco diffuso, viene considerato eccezionale.

Sia il pazzo che il saggio riflettono la medesima realtà; la differenza sta negli specchi, non nella realtà. Gli alberi visti dal nevrotico e dal Budda (in psicosintesi diremmo gli alberi visti quando siamo identificati in una subpersonalità e gli alberi visti dal punto di vista dell’Io) sono gli stessi, eppure c’è una grande differenza. Se il nostro specchio è rotto, se è ricoperto di polvere, di strati di polvere, polvere antica che si è depositata in passato, il riflesso non può rendere giustizia alla realtà, non potrà riflettere lo stato di fatto delle cose, ciò che è.

Ci viene in mente un’esperienza vissuta da una nostra paziente; la scorsa estate si trovava su una splendida isola africana, nel corso di un viaggio di un mese molto coinvolgente ed entusiasmante, sola col suo compagno. Tutto procedeva a meraviglia, finché un giorno arrivarono in un villaggio dove anziché essere soli, furono circondati dagli abitanti del luogo, in particolare da moltissime fanciulle, molte delle quali ancora minorenni, già però avviate alla prostituzione, che cercarono di sedurre il suo compagno. L’uomo non fu particolarmente attratto dalla loro bellezza, anzi si rattristò per la loro misera condizione umana, che le vedeva costrette a infilarsi nei letti di vecchi stranieri in cambio di una doccia pulita dove lavarsi gli abiti. Chi fu paradossalmente “attratta” da queste ragazze fu la donna, la quale iniziò a dare il via ad una serie di pensieri di gelosia, di confronti fisici, di tradimenti immaginari, di ansie abbandoniche, che la perseguitarono, a sprazzi, per tutto il resto della vacanza. Anche quando si trovavano in altri luoghi, isolati, baciati dal sole e dalla bellezza della natura, dove la manifestazione della vita e della pace potevano davvero toccare l’anima, lei in certi momenti, anziché tramonti e paesaggi, all’orizzonte della sua mente vedeva solo “culi perfetti, tondi, sodi, giovani e più attraenti del suo”, il tutto senza riuscire a percepire nemmeno lontanamente quanto il suo compagno invece stesse amando lei e solo lei.

Scriveva un Budda ad un suo compagno di viaggio non ancora illuminato: “E’ come se io stessi guardando l’alba e tu fossi al mio fianco, con gli occhi chiusi. Il sole sta sorgendo anche per te, proprio come sorge per me. I suoi colori sono splendidi, è una meraviglia di cui io non sono il proprietario, è anche tuo! Ma cosa può fare il Sole se tu hai gli occhi chiusi? Questa è l’unica differenza, ti sembra una gran cosa?”.