Lavoro corporeo sistema nervoso ed emozioni

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale. Articolo pubblicato sul sito Anatomytrains.it.

Riflessioni sull’importanza dell’attivazione del sistema nervoso nel lavoro corporeo.

La maggior parte delle manifestazioni emotive e delle sensazioni corporee è mediata dal sistema nervoso autonomo; quando sentiamo secchezza della bocca, senso di tensione allo stomaco, aumento della frequenza del respiro, battito cardiaco e tensioni muscolari, il sistema nervoso è attivo. Gli aggiustamenti del sistema nervoso autonomo, in generale, non accedono a livello di coscienza, ma rimangono inconsci. Il sistema nervoso autonomo viene denominato anche sistema motorio involontario per distinguerlo dal sistema motorio volontario (somatico).

La maggior parte dei movimenti generati dal sistema motorio somatico vengono controllati volontariamente, mentre la maggior parte degli adattamenti motori generati dal sistema nervoso autonomo sono di natura riflessa, cioè inconscia. Tutte le manifestazioni emotive del sistema nervoso autonomo appartengono quindi alla sfera dell’inconscio e quando il nostro corpo manifesta movimenti del sistema nervoso autonomo, mostra la nostra parte inconscia.

Il sistema nervoso autonomo si distingue in due sezioni principali: il sistema nervoso simpatico e quello parasimpatico. Il sistema nervoso simpatico controlla le reazioni di lotta o di fuga, mentre quello parasimpatico è responsabile del riposo e dell’assimilazione.

William Reich ha evidenziato che una buona salute dipende dalla capacità di attivare il sistema parasimpatico rilassante. Reich sosteneva la stretta relazione tra attivazione del sistema nervoso simpatico e disturbi emotivi.

Nel 1967 Ernst Gellhorn rivede l’importanza di un’equilibrata coordinazione attiva tra i due sistemi per mantenere una buona salute. Eccitazione, stati fisici emotivi derivati dall’attivazione del sistema simpatico devono essere seguiti da riposo e recupero con attivazione del sistema parasimpatico. L’equilibrio vitale si gioca su una continua alternanza tra questi due sistemi. Nel momento in cui è attivo il sistema simpatico siamo pronti all’azione e aumentiamo il ritmo del cuore, la pressione arteriosa, l’attivita muscolare, la respirazione. Quando è attivo il sistema parasimpatico siamo in una fase di recupero, il ritmo del cuore rallenta, la muscolatura si rilassa, la respirazione diminuisce insieme alle altre attività del corpo.

Ma l’aspetto più interessante è che tutte le emozioni sono connesse all’attivazione dei due sistemi. L’attivazione del sistema simpatico causa la manifestazione di emozioni “positive” come gioia, entusiasmo, e “negative” come rabbia, ira, frustrazione, mentre l’attivazione del sistema parasimpatico causa emozioni “positive” come amore e piacere fusionale, e “negative” come la tristezza, paura, vergogna, colpa. La salute ed il benessere di ogni persona sono presenti quando possiamo vivere pienamente e spontaneamente questa gamma di emozioni. Quando possiamo esprimerle nella maniera più completa ed autentica, in questo modo viene consentito il passaggio da un sistema all’altro in un armonioso flusso vitale. Se invece per un qualsiasi motivo ambientale, culturale, morale, personale, tratteniamo le emozioni o non ci consentiamo di viverle pienamente, da un punto di vista fisico i due sistemi non si manifestano in sequenza, ma possono interferire a vicenda o sovrapporsi. In questo caso le azioni perdono di intensità e di efficacia; è per esempio il caso in cui non riusciamo più a portare avanti un compito o un progetto, oppure il riposo ed il sonno sono disturbati, o nelle manifestazioni ansiose, dove diventa impossibile “abbandonarsi”.

Ecco perchè sottolineo l’importanza dell’intervento sulle emozioni e sull’espressività durante il lavoro corporeo, e ne spiego il motivo.

Le tensioni possono essere di due tipi: fisiche o emotive. Quando sono fisiche può essere necessario intervenire sul limite tecnico specifico che impedisce al nostro corpo di muoversi armoniosamente, cosa che può essere anche svolta da una pratica fisioterapica o riabilitativa. Quando le tensioni racchiudono un’espressione negata di noi stessi, il passaggio necessario è di riappropriarci di quel vissuto emotivo. In questo caso ogni tensione ed ogni possibilità limitata di espressione e di movimento del corpo può essere reintegrata solo attraverso un lavoro sulla espressività negata dalla tensione stessa.

A volte le tensioni corporee sono così cronicizzate che ci scordiamo perfino di averle, fanno così parte della nostra normale postura che non sentiamo neppure più il dolore e la necessità di disfarcene.

Nel lavoro corporeo il dolore provocato da un intervento di manipolazione a volte è la chiave per poterci riappropriare sensibilmente di quella parte del corpo “dimenticata”. Come quando teniamo il gesso per molti giorni e non sentiamo più la sensibilità nel braccio, solo attraverso un movimento inizialmente doloroso possiamo ripristinare la nostra normale funzionalità.

Allo stesso modo nel lavoro corporeo, attraverso il movimento, la respirazione e il tocco a volte incisivo della manipolazione, possiamo riappropriarci della armoniosità e dell’espressività del corpo. Molte volte un muscolo non si rilassa perchè è troppo “stressato”, è stato teso per tanto tempo ed è rimasto in attivazione nervosa simpatica troppo a lungo. Per poterlo rilassare e portarlo verso la sfera del sistema nervoso parasimpatico, dobbiamo prima attivarlo nuovamente. Riattivare il suo metabolismo interno attraverso l’ossigeno e gli zuccheri, e le emozioni trattenute attraverso l’espressione ed il movimento. Ecco perchè ogni lavoro corporeo, come la bioenergetica, la gestalt e l’integrazione posturale, sono sempre accompagnati da respirazione e movimento.

Molte volte le persone riscontrano stupore e meraviglia quando scoprono che il loro corpo è molto elastico, malleabile, flessibile e contiene così tante possibilità espressive. Un paziente si meraviglia di scoprire quanto può espirare o può espandere la sua cassa toracica, della qualità delle emozioni che può esprimere se emette un suono e si lascia andare al flusso emotivo del sistema nervoso presente.

Importante a questo proposito il contributo di Henry Laborit (1979): nella sua teoria sul meccanismo di inibizione dell’azione asserisce che tutto ciò che non può essere espresso nell’essere umano può trasformarsi in un blocco pervasivo e cronico, con effetti negativi sulla padronanza di sé e sulla salute psicofisica.

Peter Levine scrive qualcosa in relazione a questo blocco quando descrive il ghepardo che raggiunge un impala. La preda cade a terra al momento del contatto in una morte apparente, ma ciò che si verifica nel corpo dell’impala è simile a quello che succede in un’auto quando si preme nello stesso momento l’accelleratore e il freno. L’antagonismo tra la corsa interna del sistema nervoso (motore) e l’immobilità esterna del corpo (freno) produce all’interno del corpo una forte agitazione simile ad una tempesta.

L’animale successivamente se si salva la vita, scarica tutta l’energia mobilitata e regola nuovamente il suo sistema nervoso; l’uomo invece omette spesso questo passaggio e il suo corpo rimane contenitore di un trauma. Quando non è possibile riportare alla luce un vissuto personale con il ricordo, con la memoria, o attraverso la visione del film della nostra vita, occorre trovare una nuova chiave, una via di accesso nuova che non si serve del pensiero o dell’immaginazione, ma dell’attenzione ai fenomeni corporei.

Alla fine del secolo scorso William James scriveva: “Ci sentiamo afflitti perché piangiamo, adirati perché picchiamo qualcuno, impauriti perché fremiamo e non al contrario piangiamo, picchiamo qualcuno o fremiamo perché siamo afflitti, adirati o impauriti a seconda dei casi”.

Quindi l’esperienza cosciente che chiamiamo emozione viene fatta dopo la ricezione delle informazioni circa le modificazioni delle nostre condizioni fisiologiche o attraverso l’azione.

Riproducendo l’attivazione del nostro sistema nervoso attraverso l’amplificazione di una sensazione con l’uso della respirazione e del movimento, è possibile aprire quella porta che accede all’emozione trattenuta nel corpo. Il movimento e la respirazione diventano la chiave corporea per riprodurre quelle informazioni fisiologiche tanto quanto una visualizzazione immaginativa o un pensiero lo è per la mente.

Tuttavia questa teoria è in grado di spiegare solo un aspetto del comportamento emozionale, non si spiega infatti come ci si può sentire coinvolti emotivamente anche dopo la scomparsa delle manifestazioni fisiologiche delle emozioni. Ma lascio per ora questo argomento al prossimo articolo con un invito per tutti noi: “se prestiamo più attenzione al nostro corpo, saremo più presenti al nostro inconscio”.

Lavoro connettivale sulle fascie e vissuto della persona

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.

In questo breve articolo desidero volgere l’attenzione su alcuni punti importanti per raggiungere un completo rilascio fasciale e porre uno sguardo alla stretta connessione tra tessuto connettivo e personalità.

Ho sentito sempre più l’esigenza di chiarire questi punti riscontrando spesso, nella mia esperienza, che un rilascio muscolare puramente tecnico non è l’intervento definitivo e duraturo sulle fasce e sulla postura. Per esempio, se desideriamo liberare manualmente muscoli intorno al collo come scaleni, sternocleidomastoideo o prevertebrali, dopo una seduta possiamo verificare che alla prima situazione, spesso relazionale, nella quale la persona ritorna in contatto col medesimo conflitto che ha provocato le sue tensioni, si ripresentano le stesse restrizioni muscolari o corazze posturali.

Gli studi di Stanley Keleman da un punto di vista dinamico, e di Candace B. Pert da un punto di vista più biologico molecolare, hanno assodato oramai da tempo l’inscindibile relazione esistente tra tessuto muscolare, postura e vissuti personali. Impatti emotivi dell’ambiente o sistemi di credenze sono in grado di modificare il nostro corpo in nuovi e sempre mutevoli adattamenti. In particolare, il corpo diventa contenitore di traumi o pesi (soma) avvenuti troppo in fretta o non elaborati. Possiamo immaginarlo come un momentaneo deposito nel quale stagnano emozioni non assimilate o non indirizzate espressivamente nell’ambiente.

Se ritorniamo al nostro obiettivo di liberare muscoli intorno al collo, diventa quindi complementare all’utilizzo corretto del lavoro sul connettivo insieme alla conoscenza dei tessuti e l’attenzione al contenuto emotivo – espressivo celato dietro le tensioni. Una restrizione al collo può racchiudere, ad esempio, un’emozione di tristezza o paura, e se questo vissuto non viene portato a consapevolezza, automaticamente una nuova emozione di tristezza o paura rigenererà lo stesso schema.

In altre parole, nelle tensioni muscolari sono racchiuse parti di noi che non hanno avuto uno spazio, che non sono riuscite ad esprimersi. Proviamo per un attimo a chiudere gli occhi focalizzando l’attenzione su una parte tesa del nostro corpo e proviamo a rispondere a questa domanda: “Chi sta tendendo? Chi è responsabile di questa forza?”. La risposta è, inevitabilmente: “noi” o se vogliamo, una parte di noi che sta funzionando automaticamente, al di fuori del nostro controllo cosciente.

L’importanza dell’atto di consapevolezza diventa quello di conoscere, possedere e indirizzare tale attività energetica subcosciente che si manifesta in restrizioni fisiche – comportamentali stereotipate, verso attività più flessibili, aperte, dinamiche ed espressive.

Il lavoro sulle fascie connettivali diventa, così inteso, una sinergia tra l’attività manuale sulle fasce e di dialogo con parti della persona che sottendono tali tensioni.

Metaforicamente possiamo pensare che non è possibile pretendere di entrare, con modalità irrompente, dalla porta di un’abitazione senza chiedere il permesso a chi la abita, allo stesso modo non è possibile lavorare sull’apertura di una fascia muscolare senza rispettare l’ospite, ovvero quella parte di noi che la anima.

Da qui verifichiamo la coesistenza tra corazza muscolare e personalità o subpersonalità, (etimologicamente dal greco persona significa maschera). Con personalità possiamo intendere l’organizzazione relativamente stabile del rapporto dell’individuo con il mondo esterno, ovvero sia il nostro modo di essere al mondo in un determinato momento ed in relazione ad un certo ambiente sociale e fisico. Allo stesso modo quella struttura corporea costituita da tensioni, posture e atteggiamenti in risposta ad adattamenti ambientali, si manifesta con schemi motori ripetuti ed automatici in maniera consistente nel tempo, e non è modificabile assumendo semplicemente posture differenti o cambiamenti comportamentali imposti.

Infatti, liberare in modo risolutivo una tensione corporea non significa applicare una tecnica. La richiesta comune delle persone è spesso quella di togliere un dolore, un male, come se una tensione fosse qualche cosa di esterno a noi, che non ci riguarda personalmente ma semplicemente qualcosa di fastidioso e da eliminare. In questa visione ricadiamo nell’abitudine di vedere il nostro corpo come un oggetto, come un utensile che si è rotto e non funziona bene, e lo portiamo a “riparare” da una persona che conosce bene la “meccanica” del problema e ci elimini il fastidio nel minor tempo possibile, auspicabilmente nella maniera più indolore. Così facendo tralasciamo la connessione tra il nostro corpo e la nostra identità, dimenticandoci che il corpo è lo specchio della nostra vita e del nostro esserci al mondo: ogni tensione è il modo migliore che abbiamo di manifestarci in un momento particolare della nostra esistenza, è una parte di noi che si esprime nel qui ed ora.

Per dare movimento e direzione a queste “esistenze” bloccate, accanto ad ogni manovra sul tessuto connettivo è importante dedicare uno spazio a processi d’intensificazione espressiva delle tensioni, attraverso il respiro, il suono, il dialogo.

L’uso del respiro intensificato sull’inspirazione per caricare a livello energetico il tessuto e successivamente intensificato sull’espirazione per favorirne il rilascio durante le manovre connettivale, è uno strumento diretto che agisce sul sistema nervoso, ed accanto alla liberazione muscolare favorisce una liberazione espressiva ed emotiva. In questo, un particolare ringraziamento va al metodo Painter: ritengo utilissimo l’uso dell’onda energetica e della direttività dell’energia fine, come strumento attivo nel rilascio somato-emotivo-connettivale.

Costellazioni familiari e coscienza

Scritto dal dott. Marco Montanari Psicologo – Psicoterapeuta, Integrazione Posturale.

Mi sono avvicinato al pensiero di Bert Hellinger con un po’ di perplessità trovando nel suo modello concetti come “movimenti dell’anima” e “movimenti dello spirito”così inaccessibili e ostici alla comprensione razionale. Nella formazione con Bert Hellinger ho potuto osservare il suo raccolto modo di lavorare e la sua capacità così rara di connettersi ai movimenti dispiegati nelle costellazioni, tanto da rimanerne profondamente segnato e trasformato. La cosa che più mi colpisce è la potenza e l’immediatezza del suo lavoro nella risoluzione delle problematiche. Durante una sessione di costellazioni familiari si entra in una dimensione parallela, più simile ad un sogno che alla realtà, i movimenti sono più lenti e le relazioni in quel momento sono basate sul sentire.

I rappresentanti si raccolgono rimanendo anche molto tempo in silenzio e connessi con quello che accade. Queste atmosfere sono possibili quando il protagonista sceglie tra i componenti del gruppo i rappresentanti, li dispone nella stanza e li affida ai movimenti dei loro corpi. Guidati dalle loro sensazioni essi creano un “campo”, iniziano a percepire particolari emozioni e cominciano ad accadere molte cose. Non esiste ancora una spiegazione logica e condivisa da tutti, che rivela il motivo per cui i rappresentanti percepiscono le medesime sensazioni del protagonista o delle persone della sua famiglia, pur non avendoli mai visti e conosciuti prima. Riguardo a questo fenomeno Rupert Sheldrake, biologo e scrittore britannico, avanza l’ipotesi che i nostri ricordi non sono immagazzinati nel cervello, ma piuttosto possono essere percepiti attraverso un campo fisico, al quale si può accedere mediante il cervello.

La coscienza umana, i nostri ricordi personali e il nostro senso dell’io possono essere colti e riconosciuti dalle persone che si connettono con il campo delle nostre relazioni personali; Rupert Sheldrake chiama questo fenomeno “risonanza morfica”. È un pensiero molto vicino al concetto Junghiano di inconscio collettivo, ripreso da Assagioli nel modello psicosintetico. L’inconscio collettivo emerge in ciascun individuo dall’istinto condiviso, dall’esperienza comune e dalla cultura, è quel contenitore psichico universale e comune a tutti gli esseri umani. In altre parole siamo tutti collegati, e se ci affidiamo alle sensazioni attraverso uno strumento come quello delle costellazioni familiari ad esempio, siamo in grado di inoltrarci, riconoscere e vivere in prima persona le dinamiche nascoste del nostro vicino.

Partecipare alle costellazioni familiari significa quindi entrare in contatto con una dimensione più vasta di quella che si percepisce abitualmente quando ci riferiamo alla nostra identità, ai nostri confini, alla nostra mente, corpo, o percezione delle esperienze personali. Significa ampliare lo sguardo, affidandosi a qualcosa di più grande, aumentando la capacità di osservazione e allargando il nostro usuale contesto di riferimento. Questo permette di osservare da un punto di vista differente i fenomeni e comprenderne le dinamiche nascoste.

Riconoscere il profondo amore verso il proprio genitore, poter gioire nel vedere la propria famiglia unita, svelare l’origine della sofferenza in termini generazionali, attingere alla forza della connessione con i propri avi, sono solo alcuni dei potenti movimenti svelati da una costellazione familiare. Tutti i partecipanti possono trarre vantaggio dall’osservazione di queste dinamiche, non soltanto il protagonista che porta il problema.

Hellinger da un lungo lavoro con il metodo delle costellazioni familiari conferma l’esistenza di tre diversi tipi di coscienza nell’uomo. La coscienza personale, che risponde alla nostra mente, alle nostre convinzioni, separa ciò che è bene e ciò che è male, ci guida verso quello che riteniamo giusto e ci separa da quello che percepiamo come sbagliato.

La coscienza familiare o sistemica, che appartiene a tutte le persone che costruiscono tra di loro rapporti stabili e sono unite in un gruppo. Ogni gruppo tende a sviluppare al suo interno norme, regole, ordini, valori e tabù, attraverso un patto più o meno esplicito che disciplina il comportamento di tutti coloro che vi appartengono. Secondo il pensiero di Hellinger questa coscienza non è consapevole, ma quando la sofferenza si trasmette da una generazione all’altra ne viviamo gli effetti, ha quindi la funzione principale di legarci inscindibilmente alla nostra famiglia di origine. Infine accanto alla coscienza personale, di cui siamo consapevoli e alla coscienza sistemica, che opera in noi anche se non ce ne rendiamo conto, esiste una terza coscienza che ci guida verso una realtà superiore. Seguirla richiede un importante passaggio, perchè ci allontana dall’obbedienza ai dettami della nostra famiglia, religione, cultura o identità personale. È ineffabile misteriosa, è una sintesi armonica, e per arrivare ad essa dobbiamo lasciarci alle spalle tutto ciò che abbiamo imparato. Quando nelle costellazioni familiari i rappresentanti seguono le loro sensazioni e si raccolgono possiamo assistere, a volte, ad un movimento che va oltre alla nostra immaginazione, tale movimento è chiamato “movimento dell’anima“. Agire sotto l’influenza di qualcosa di più grande come quello che Hellinger chiama “movimento dell’anima” porta a soluzioni molto particolari. Si accede a questo livello solamente nel momento in cui superiamo i limiti delle nostre due coscienze ordinarie, quando ci affidiamo alle sensazioni, alle percezioni, e abbandoniamo la mente. Tutte le volte che ho lavorato su di me attraverso questo modello terapeutico, ho sempre avuto la sorpresa di vedere in scena una rappresentazione familiare completamente diversa da come l’avrei mai immaginata, l’imprevedibilità e la potenza delle nuove immagini alle quali ho assistito si sono impresse dentro di me ed hanno avuto un importante effetto nel tempo.

Per concludere vorrei aggiungere che normalmente quando una persona porta un problema, descrive la sua visione della realtà che è dettata dalle prime due coscienze: la coscienza personale e sistemica, tale visione non solo “giustifica” il problema ma è un tentativo impeccabile di “mantenere” il problema. Attraverso le costellazioni tentiamo di andare oltre la visione personale per trovare soluzioni che superino le nostre coscienze ordinarie, cerchiamo quindi una connessione con qualcosa di più vasto, con un movimento più profondo, dal quale ogni altra coscienza viene regolata.

Il problema di Facebook e dei Social Network

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.

Con questo articolo mi rivolgo a tutti coloro che hanno frequentato Social Network e sono rimasti delusi vedendo spegnersi, a poco a poco, l’iniziale entusiasmo di fare parte di questa grande rete di relazioni umane. In questa delusione possiamo probabilmente racchiudere la superficialità dei valori degli scambi amicali ed i modi in cui vengono messi in gioco i sentimenti. Riscontro che molte persone dedicano tempo ed entusiasmo a questa realtà virtuale, coltivando incredibili quantità di amici, contatti, possibilità di partner, gruppi, tanto da sentire di avere tralasciato scambi “reali” in contesti “reali”.

Sempre più persone raggiungono il mio studio di psicoterapia in preda ad una grande confusione dovuta, oggi, non all’uso di una droga conosciuta nel contesto classico delle dipendenze, ma spesso, causata dalla frequentazione di Social Network. Lo sballo di questa “sostanza”non è più identificabile biologicamente attraverso oppiacei che raggiungono recettori sinaptici o altro, ma da un’attivazione diretta del sistema limbico che avviene tramite immagini, video, messaggi, parole ad effetto, che vanno immediatamente ad agire nelle “aree cerebrali del bisogno”.

Qualche tempo fa decisi di iscrivermi a Facebook attratto dall’idea di poter contattare qualche vecchio amico. Il tempo effettivo necessario per l’iscrizione e per apprendere qualche nozione base fu di almeno un’ora; decisi quindi di telefonare ad un amico e di impiegare quel tempo per vedere fisicamente una persona a me cara. Cosa ha differenziato il nostro incontro da un incontro virtuale? Davanti ad una persona passano una quantità infinita di informazioni che non possono essere trasmesse attraverso una connessione di rete. I recenti studi sui neuroni specchio rivelano che coordinate spaziali intorno al corpo, e quindi il rapporto con gli oggetti e le persone che ci circondano, coinvolgono le parti fondamentali del nostro sistema nervoso. In altre parole, la comunicazione più importante e, soprattutto, le informazioni più importanti passano attraverso il contatto fisico e non verbale. La vicinanza prossemica, gli odori, la stimolazione galvanica del contatto con la pelle, l’impatto energetico e l’influsso della presenza, sono elementi della relazione che vengono assimilati ed elaborati inconsciamente molto più delle parole.

Novanta milioni di persone tra i quali il 30 per cento degli italiani, soprattutto giovani tra i 25 e i 34 anni, usano uno strumento come Facebook o altre realtà di Internet Community. Cosa li spinge a ciò? Una parola risponde, almeno in parte, a questa domanda: bisogno. Bisogno di affetto, di appartenenza, di apparenza, di marketing, di amore, di rapporti occasionali e chi più ha idee più ne aggiunga. Si tratta comunque di bisogni che non trovando soddisfazione nel campo reale si rivolgono a quello virtuale e non ci sarebbe niente di male in questo, se ne fossimo consapevoli.

Delle domande che potremmo porre a noi stessi mentre stiamo scrivendo qualche messaggio ad effetto, mentre stiamo caricando una nostra particolare foto o filmato, mentre il nostro cuore si accende all’idea di vedere se qualcuno ci ha scritto su Facebook, sono: “quale bisogno c’è dietro? Cosa sto cercando qui? Dove non riesco nella realtà?”. Mi rendo conto che queste domande possono assomigliare a tecniche di decondizionamento cognitivo comportamentale che solitamente vengono utilizzate per frenare un atto compulsivo, una dipendenza, un istinto automatico, ma se dobbiamo darle un nome, diamole quello giusto: di una dipendenza a volte si tratta. Calcolando il tempo passato davanti a Facebook o a qualsiasi altro Social Network, spesso parliamo di ore che nell’arco di un anno sono settimane intere. Si tratta di un tempo dedicato ad una vera e propria altra realtà. Il problema non è costituto dal soddisfare un bisogno, che è qualcosa di vitale importanza per l’essere umano, ma lo diventa quando questa necessità si trasforma in una dipendenza che ci separa da una nostro esserci pienamente e manifestarci nella realtà.

Riguardo all’amicizia, mi viene da pensare ai compagni di scuola o a quelle persone particolari con le quali abbiamo condiviso le esperienze più belle ed importanti, amici che ci hanno accompagnato e ci sono stati vicini nei momenti più significativi della nostra vita. Può essere interessante fare un paragone tra queste persone così importanti, che si possono forse contare sulle dita di una mano ed i quattrocento o cinquecento contatti, chiamati “amici”, raggruppati in ogni profilo di Facebook. A mio parere, alcuni valori non sono flessibili a mode o a tendenze, pertanto non ritengo possibile definire ex novo “amicizia” o “amore” attraverso questo nuovo veloce modo di favorire incontri. Credo che da questo nasca la maggior parte della confusione che vedo ogni giorno: si coltivano molteplici contatti di amicizia ma ci si sente soli, si manifesta amore in ripetuti rapporti occasionali o pratiche di sesso virtuale e non ci si sente mai amati.

Per non parlare dell’impatto emotivo che può avere la possibilità di rifiutare un’amicizia o ancora peggio ignorarla con un semplice click, o quanto può essere potente e compromettente vedere sparire persone dalla propria vita in un attimo, sostituite con disinvoltura l’istante dopo; questo si verifica quotidianamente nei Social Network.

Le Community sono inoltre una panacea di confessioni ed esibizioni personali, non si risparmiano le più inaspettate intimità, in parallelo al crescente interesse sociale per i Reality e a tutte quelle forme di esserci per gli altri “senza censure”. In questa apparente disponibilità, apertura, generosità di realtà personali in cambio forse di un po’ di capacità di stupire o di visibilità, si perde l’unicità del rapporto, la sacralità della confessione e la segretezza della confidenza; in altre parole si perde ciò che trasforma le relazioni superficiali in relazioni speciali. Riconoscersi in uno sguardo, trovare conferma in un contatto, essere contenuti con uno scambio fisico, viene sostituito da una conferma virtuale, e come ogni cosa non vera, si scinde dalla realtà, perdendo la sua esistenza concreta. Allora possiamo chiederci in quale realtà vanno tutte queste parti intime di noi, e soprattutto a chi vanno! Cosa succede quando ci eccitiamo, piangiamo, ridiamo, ci soddisfiamo e diamo tutto noi stessi davanti ad uno schermo? A chi vengono indirizzati tutti quei sentimenti espressi ed inviati in messaggi, e-mail video o foto? Dove si disperdono?

Rollo May in Amore e volontà (1970) espone una visione molto chiara dell’individuo della società di allora, gli attribuisce un bisogno di emozioni forti per abbattere un muro di abitudini e d’insensibilità. Oggi, a mio parere, pur essendoci questa necessità, si delinea un altro problema: la scissione e la frammentazione dei vissuti. Non è difficile vivere più realtà contemporaneamente e dividersi in più contesti: amante virtuale e moglie reale, amicizie virtuali e amicizie reali, sesso virtuale e sesso reale, identità virtuale e identità reale.

Facebook, Myspace, Linked in ed altri Social Network offrono la possibilità di soddisfare immediatamente il bisogno dell’uomo di comunicare, manifestarsi, confrontarsi e completarsi attraverso gli altri; io ritengo che il problema non sia tanto l’avere questi bisogni, ma piuttosto come essi vengono soddisfatti. Lascio aperta dunque una riflessione sulla modalità di esserci con gli altri attraverso delle realtà virtuali e sul pericolo che esse possano diventare una dipendenza, senza le quali si aprirebbe inevitabilmente il confronto con la propria solitudine.

Famiglia karma e spiritualità

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.

L’uomo, in quanto essere sociale, conosce e riconosce se stesso, la sua o le sue identità, nelle relazioni con gli altri. Il bambino, che nella parte iniziale della sua vita non avverte una separazione netta tra lui e chi si occupa di lui, impara a manifestare se stesso nell’interazione. Se sua madre o la persona che si occupa di lui gli sorride, egli non solo reagisce con un sorriso, ma diventa quel sorriso stesso, diventa quella fonte di gioia e felicità; nello stesso modo se riceve un’espressione di dolore o di rabbia, la sua identità si specchia e si riconosce in quell’emozione. Quando siamo molto piccoli non riusciamo a distinguere se chi si occupa di noi prova dolore perché ce l’ha con noi oppure sta provando qualche cosa in conseguenza ad un evento della sua giornata o per sue motivazioni personali; siamo solo recettivi a quello che avviene nella relazione in un momento così delicato della nostra vita, ciò diventa sempre e comunque parte di noi.

Può apparire ridondante parlare dei bambini, fino a quando non ci accorgiamo che certe dinamiche avvengono nello stesso modo, in tempo reale, nella nostra quotidianità. Quante volte reazioni negative o scontrose di persone che incontriamo cambiano i nostri umori o trasformano le nostre giornate, tirano fuori le parti peggiori di noi oltre la capacità di controllo; a volte assorbiamo questo in modo ricettivo proprio come un bambino reagisce a quei sorrisi o quegli sguardi di dolore. Tali cambiamenti di umore si manifestano così improvvisamente e automaticamente da lasciarci stupiti davanti alle nostre reazioni. Ci domandiamo il motivo per cui certe persone sono così abili e potenti nel farci reagire in modo così impulsivo e negativo davanti alle loro richieste, pressioni e giudizi; cerchiamo di capire il perché certi accadimenti non riusciamo a farli scivolare via e rimangono sotto forma di martellanti pensieri o fastidiose sensazioni, impedendo il normale e sereno svolgimento delle nostre attività quotidiane.

Molte volte per noi reagire è normale, qualunque persona al posto nostro si comporterebbe nello stesso modo, altre volte certe relazioni ci feriscono nell’anima, nel profondo, lasciano un segno più forte. Diventa difficile dimenticare tutto senza avvertire un “rumore di fondo” che rimane fastidioso.

Un esame più attento ci può far riflettere sul fatto che tante situazioni si ripetono, molte relazioni che ci fanno soffrire si manifestano sempre nello stesso modo o con le stesse dinamiche. L’incontro con alcune persone nella nostra esistenza sembra essere un teatro, dove ritornano le medesime scene, come se avessimo continuamente l’occasione di rivedere, mentre lo recitiamo, un copione difficile da mutare.

Se è vero che dalla nascita un bambino è pronto ad assorbire come una spugna i condizionamenti che l’ambiente gli fornisce e a riconoscere e reagire a quei sorrisi o a quegli sguardi di dolore, quando crescerà attiverà automaticamente qualcosa dentro di lui rapportandosi a tali sorrisi o sguardi, parti interne impareranno automaticamente a reagire a tali condizionamenti come bottoni, pronti ad essere spinti e a dare vita alle medesime emozioni del passato. Condizionamenti iniziali mettono i semi che rimangono nell’inconscio e sono pronti ad emergere ogni qualvolta un particolare evento esterno darà vita ad una relativa emozione, ogni qualvolta si metterà in scena la ripetizione di un copione, di una medesima dinamica.

Per questo motivo certe relazioni possono fare male a qualcuno e possono non fare male a qualcun altro, come se qualche cosa di interno ad ognuno di noi si attivasse in modo differente a seconda dei personali vissuti e delle intime esperienze. Come una cartina tornasole cambia colore solo se macchiata con determinate sostanze, o come un agente chimico, che a seconda della sua natura e della qualità dell’interazione può sviluppare più o meno energia, legami più o meno forti.

Stando così le cose, buona parte della responsabilità di cambiare quel copione di teatro e di come poter agire su quei condizionamenti dipende da noi, dal nostro temperamento, dalla nostra capacità di non sottometterci, di rafforzarci e di metterci in gioco.

Rimane però una domanda che spesso scoraggia ogni nostro tentativo di cambiamento e ogni nostro sforzo e che molte volte porta ad un atteggiamento di rassegnazione più che di accettazione. Questo spesso accade quando ci chiediamo il perché siamo nati in un determinato ambiente e non in un altro, perché tanti sguardi di dolore e pochi sorrisi, perché abbiamo ricevuto condizionamenti negativi rispetto a chi è stato più fortunato di noi. Possiamo chiederci perché non ci è dato di scegliere l’ambiente in cui cresciamo, di sapere chi dalla nascita si occuperà di noi, chi ci darà gioia, incoraggiamento o freddezza e repressione, gettando i semi nelle nostre esperienze e determinando il nostro carattere.

Se per un istante chiudiamo gli occhi e immaginiamo la nostra casa di infanzia, la nostra famiglia, l’atmosfera dell’ambiente nel quale siamo cresciuti, gli odori ed il sapore delle esperienze che hanno caratterizzato quei luoghi e quelle stanze, possiamo per un momento entrare in contatto con i condizionamenti ed i semi di cui parlavamo prima.

Quando siamo pronti per fare un altro passo possiamo visualizzare le interazioni tra le persone della nostra famiglia, in particolare le relazioni che sono state più sofferenti; possiamo individuare una persona della nostra famiglia che ha sofferto di più, con la quale siamo entrati in risonanza ed abbiamo condiviso, anche se non direttamente, il suo stato d’animo. Spesso quando ci soffermiamo a sentire questo possiamo avvertire fastidio, un po’ come se toccassimo un nervo scoperto di noi, come se fossimo masochisticamente proiettati dentro una sensazione che non vogliamo provare o che addirittura evitiamo.

La stessa emozione fastidiosa è presente nella nostra vita ogni qualvolta ci relazioniamo con quella persona della nostra famiglia, o con chiunque sia in grado di entrare intimamente in contatto con quella particolare parte di noi. Sentiamo spesso affermazioni del tipo: “Sei come mia madre!”, “con tutta quella irruenza mi ricordi mio padre!”, “quando mio padre o mia madre fanno così non li sopporto!”…”I miei genitori sono in grado di farmi arrabbiare come nessun altro!”. I genitori possono averci dato tante cose importanti e fondamentali, ma non è questo l’argomento su cui ci focalizziamo ora, in quanto ciò che ci rende felici non porta desiderio di cambiamento; la nostra attenzione va invece verso quei comportamenti che ci hanno reso sensibili e che ci riportano in contatto con le nostre ferite. Il nostro scopo è comprendere come si attivano così automaticamente certe reazioni dentro di noi.

Nel tentativo di rispondere al perché nasciamo in un determinato ambiente e siamo soggetti a determinati destini, condizionamenti, o eventi così forti da cambiare la nostra esistenza, può essere importante conoscere la teoria del karma nell’insegnamento buddista. Nel buddismo viene chiamato karma (letteralmente: azione) il meccanismo nascosto, la legge immanente che regola lo scorrere dell’universo. Con la parola karma viene indicata qualsiasi azione mentale, verbale o fisica, di qualsiasi essere vivente, che produce un effetto corrispondente.

Il buddismo nasce per poter risolvere il problema della sofferenza nell’essere umano e secondo questa religione, ogni sofferenza è legata al karma di ognuno di noi, cioè a tutte quelle azioni presenti o passate che possono essere suddivise in “cause karmiche”, sotto il profilo delle singole azioni; “tendenze karmiche”, quando un certo tipo di azione ripetuta costantemente produce una predisposizione verso un certo tipo di comportamento; “relazioni karmiche”, nelle interazioni con altri individui e con l’ambiente in cui viviamo.

Ogni volta che ripensiamo quindi al motivo per cui siamo nati in un determinato ambiente, abbiamo ricevuto determinati condizionamenti o siamo stati soggetti ad un determinato destino, possiamo pensare ad una nostra “responsabilità karmica”, cioè a quel numero infinito di azioni compiute da noi da un incalcolabile tempo passato verso un infinito futuro. Ed è come se attualmente ci trovassimo nel mezzo, ovvero sia nel “qui ed ora” influenzato da tali cause; diventa quindi nostra la responsabilità di ciò che accade e di come possiamo cambiare l’evolversi degli eventi. Se quello che ci succede nel presente è un effetto conseguente di cause che abbiamo messo nel passato, la ferita di cui parlavamo prima, quel nervo scoperto inflitto dall’ambiente, che ci porta istintivamente a scostarcene o a pensare di non esserne responsabili, acquisisce invece un enorme significato nell’ottica del cambiamento. Diventa quindi estremamente importante conoscere tali ferite per poter trasformare il nostro karma e gli eventi della vita che si ripetono.

La sofferenza che ritroviamo nei nostri genitori, a pensarci bene, presente anche nei nostri nonni e bisnonni, e per finire, in noi stessi, passata come il testimone di una staffetta di generazione in generazione, diventa l’oggetto di attenzione più importante per trasformare il karma, per cambiare quelle azioni che si ripetono in modi diversi, ma con lo stesso risultato, da tanti anni.

In un antico testo buddista viene scritto: “…Per prima cosa, alla domanda di dove si trovino l’inferno e il Budda, alcuni sutra affermano che l’inferno si trova sotto terra, altri che il Budda risiede a occidente. Ma ad un attento esame risulta che entrambi esistono nel nostro corpo alto cinque piedi; la ragione per cui penso così è che l’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre. È come il seme del loto che contiene al tempo stesso il fiore e il frutto.Anche il Budda esiste nei nostri cuori, così come dentro la pietra focaia esiste il fuoco e dentro la gemma esiste il valore. Noi comuni mortali non possiamo vedere le nostre ciglia che sono vicine né il cielo che è lontano. Ugualmente non sappiamo che il Budda esiste nel nostro cuore…”.

Soffermandoci sulla frase, “l’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre”, risulta chiaro da questo insegnamento che per trasformare le nostre sofferenze è importante occuparci di ciò che nella vita ha fatto e fa soffrire i nostri genitori, come se fosse per noi uno specchio importante per comprendere le nostre.

Molte volte ci stacchiamo dalla famiglia, cerchiamo di allontanarci da un ambiente familiare negativo cambiando casa, città, continente, con un atteggiamento giudicante verso i nostri genitori, con una profonda insoddisfazione per ciò che hanno dato o trasmesso. Questo atteggiamento, nella maggior parte dei casi, non risolve le mancanze; anzi come se ce le portassimo inevitabilmente dentro dovunque andiamo, può accadere paradossalmente che nel tempo, finiamo per assomigliare ai nostri genitori riproducendo quel comportamento e quegli errori che tanto ci hanno fatto stare male.

Il nostro tentativo di essere liberi manifestando la nostra indipendenza molte volte fallisce. Esiste una regola molto importante: ciò che accogliamo nel nostro cuore ci rende liberi, ciò che rifiutiamo e disprezziamo ci rende prigionieri; la prigione è rappresentata proprio da quella nostra inevitabile e automatica reazione negativa.

A volte possiamo pensare di risolvere questo problema nella maniera contraria, rimanendo vicini ai nostri genitori, alloggiando nella stessa abitazione o in case vicine fino a tarda età, occupandoci di loro sempre e rispondendo a tutte le loro esigenze. Possiamo essere sensibili a ciò che procura loro sofferenza come un confessore, una balia, un amico o come un loro genitore. In questo atteggiamento di salvatore dove dedichiamo apertura e sensibilità alla “povera” esistenza dei familiari, frena irrimediabilmente la singola emancipazione oltre a fomentare una forte dipendenza da entrambe le parti.

Possiamo riflettere sull’atteggiamento giusto, resta comunque certo che per cambiare il nostro karma e per risolvere ciò che nella nostra vita si ripete, la relazione con i nostri genitori è un’importante argomento del quale ci dobbiamo occupare, del quale dobbiamo avere cura.

La mia attenzione ritorna perciò all’importante e veritiera frase: “l’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre”, frase che appare contraddittoria se ci documentiamo sulla vita dell’autore di questo splendido scritto, il monaco Nichiren Daishonin, che si allontanò dalla famiglia di origine all’età di dodici anni per intraprendere vita monastica e passando poi gran parte della propria esistenza lontano dai suoi cari, trasgredendo ai comuni “doveri filiali”. Un attento sguardo alle vite dei più importanti maestri e fondatori di insegnamenti religiosi, come Shakyamuni (Budda), Gesù, Maometto e altri, ci ragguaglia sul fatto che anche tutti questi uomini hanno lasciato la loro famiglia di origine per dedicarsi alla spiritualità ed alla ricerca. Nella loro strada verso la felicità hanno mantenuto una certa distanza dalla loro famiglia, ma non possiamo affermare che non si siano occupati “da lontano” di quella che si può chiamare sofferenza dei loro familiari, quindi origine del loro karma. Questo viene dimostrato dal fatto che i genitori di questi grandi uomini, che hanno dedicato una intera vita alla ricerca o all’insegnamento religioso, hanno aderito in tarda età al percorso dei figli, convertendosi o avvicinandosi ai loro insegnamenti con gioia e devozione.

Come se nella realizzazione personale essi avessero gettato profondi semi di luce nella catena delle sofferenze karmiche delle passate generazioni, donando indirettamente felicità e gioia ai loro genitori ed ai loro familiari. Possiamo dire che il legame tra genitori e figli è così forte, che la realizzazione e la felicità di una parte influenza anche indirettamente, la felicità e la realizzazione dell’altra. Un percorso di realizzazione che rimane interno ad ognuno di noi, lavorando con quelle sofferenze nella palestra dei legami e delle relazioni nella nostra vita quotidiana. Possiamo dire che la tali nodi si sono formati nella relazione e si risolvono nella relazione.

Alla luce di queste riflessioni, consideriamo inadatto sia un atteggiamento di accudimento oblativo verso i nostri genitori, sia un allontanamento drastico dal legame, essendo necessario prenderci cura ed elaborare quello che è successo proprio in tale legame. Possiamo cercare di raggiungere, nella costante attenzione e cura dei nostri vissuti, una relazione con il dolore familiare più leggera, distaccata e rilassata; questo è possibile solamente se riusciamo a includere tale sofferenza nel nostro cuore con il dovuto rispetto.

“Non disprezzare il proprio padre e curarsi della propria madre”, diventa quell’atteggiamento di cura e amore, dentro di noi, verso le origini di quelle sofferenze, presenti nella nostra famiglia, nelle nostre generazioni e negli ambienti in cui siamo nati e vissuti.

Un percorso spirituale può favorire la realizzazione di questo cambiamento interiore, per noi e per i nostri cari, ma vorrei dedicare qualche parola all’importanza dell’atteggiamento con il quale ci relazioniamo alla spiritualità.

Molte volte ci rivolgiamo ad una entità spirituale, sia essa Dio, Budda o Allah, come se fosse un essere umano a noi pari: lo chiamiamo, lo supplichiamo, lo trattiamo come un amico, e quando non ci vanno bene le cose che accadono siamo anche capaci di imprecare contro di lui, di bestemmiarlo o calunniarlo. Nella spiritualità si usa il termine “elevare” per indicare l’atto che ci mette in contatto con una nostra parte più pura, più alta; quando diciamo di “elevarci”, intendiamo lo spostarci verso un altro livello rispetto alla normalità, sia esso mentale, fisico o emotivo.

Se il livello spirituale è diverso dal livello normale con il quale ci relazioniamo agli altri, allora trattare Dio o il nostro oggetto di culto come un nostro pari, sottende il fatto di pensare di essere come lui o migliore di lui, di sapere a volte più di lui come dovrebbero andare le cose, quindi cosa è giusto o sbagliato. La superiorità o l’arroganza spesso non ci permettono di incontrare la spiritualità.

Al contrario, molte volte ci rivolgiamo alla spiritualità o ad una dottrina religiosa con remissività, come se ci fosse all’esterno di noi una risoluzione magica dei nostri problemi: dall’alto vengono le capacità di essere capiti e assistiti, in modo che le cose vadano bene. Il conflitto nasce quando nonostante le preghiere, nonostante i numerosi atti di fede e i nostri sforzi, non solo le cose non vanno come noi vogliamo, ma può succedere di continuare ancora a soffrire senza trovare pace. Addirittura la sofferenza aumenta proprio durante la preghiera, quando apriamo i nostri sensi ed il nostro cuore, ed emerge con maggiore chiarezza quello che stiamo vivendo. Allora la rabbia verso l’oggetto di culto o verso il nostro Dio aumenta, ce l’abbiamo anche con tutte quelle persone che ci spingono ad ulteriori atti di fede, perché non vediamo realizzarsi un desiderio o non si persegue un obiettivo.
Non assomiglia forse questo atteggiamento capriccioso e bisognoso a quello di un figlio verso le mancanze dei propri genitori? Si può pensare che l’atteggiamento con il quale ci mettiamo davanti alla spiritualità sia a volte la riproduzione di una dinamica relazionale della nostra vita; riappare la medesima sofferenza sottesa in quelle relazioni che non abbiamo risolto, partendo da quelle con i genitori.

Si ripete molte volte la lamentela, l’affidamento cieco o la pretenziosa realizzazione di una felicità immediata, la richiesta ansiosa ad un oggetto di culto o ad un nostro Dio di una risposta veloce alle nostre sofferenze.

E così facendo evitiamo di essere attenti alla cosa più importante che emerge: la sofferenza stessa.

In quella sofferenza non ci siamo forse noi? Non c’è forse una nostra energia, la nostra storia, un parte di noi che forse non è mai stata ascoltata ed accolta?

Il contatto con la spiritualità è un atto sacro, un rituale di accoglienza e di vicinanza a tutte quelle parti di noi e alla vita stessa.

Attraverso il contatto stesso con la spiritualità possiamo trovare la forza per “prendere per mano” con unicità tutto ciò che esiste e si manifesta, per diventare così genitori di noi stessi.

Se nel qui ed ora sono presenti tutte le “cause” passate e future, quello che accade nel qui ed ora dovrà essere il nostro principale oggetto di attenzione, la “culla” in cui prenderci cura ed entrare in contatto con noi stessi attraverso la spiritualità.

Terapia della gestalt: Bologna – Prima parte

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.

In questo articolo sono raccolte informazioni generali sulla terapia della gestalt per la diffusione e l’utilizzo di questo modello di intervento, è scritto sia per gli “addetti ai lavori” che per chi si avvicina alla conoscenza dell’approccio gestaltico. Lo scopo di questi articoli è quello di diffondere la cultura della gestalt, in particolare nella città di Bologna dove, nel lavoro terapeutico, utilizzo con entusiasmo questo modello soprattutto nell’intervento corporeo.

Vita di Fritz Perls fondatore della terapia della Gestalt:

E’ piuttosto complesso stabilire una data precisa per introdurre la “nascita” della Terapia della Gestalt. Alcuni autori e terapeuti della Gestalt ne attribuiscono la fondazione a Frederich Salomon Perls; altri (come Wheeler) sembrano più critici rispetto alla figura di Perls, ritenendolo piuttosto un “geniale intuitore” di elementi già presenti in altri modelli epistemologici del suo tempo.

Psicoanalista ebreo nato in Germania ed emigrato prima in Africa, dove svolse la maggior parte del suo lavoro di psicoanalista, Perls si sposterà successivamente negli Stati Uniti, dove ebbe modo di sviluppare le intuizioni che legavano la sua pratica terapeutica alla Psicologia della Forma ed ai modelli fenomenologici-esistenziali. Fornendo, inoltre, alcuni “cenni” sulla sua vita si potrà meglio comprendere come essa abbia influenzato la sua formulazione teorica e soprattutto la sua impostazione operativa terapeutica.

Nasce (1893) in un ghetto ebreo di Berlino, da una coppia problematica e burrascos. La madre gli trasmette l’amore soprattutto per il teatro, passione che coltiverà per tutta la vita e che influenzerà molto il suo lavoro terapeutico, sia nella pratica clinica che nella concettualizzazione teorica. Le contraddizioni e gli scontri più seri li ha con il padre. A partire dall’età di 10 anni si avvia un percorso esistenziale buio, (enfant terrible), fino a quando, verso i 14 anni incontra il teatro da protagonista, affascinato dall’offerta di tecniche espressive di questa attività.

Nel 1914 si iscrive alla facoltà di medicina, studi che lascerà per arruolarsi volontario nella Croce Rossa ed andare in guerra. In servizio al fronte vivrà alcune tra le esperienze più traumatiche della sua esistenza; al ritorno subirà per molto tempo i postumi di questi accadimenti (depersonalizzazione, completo disinteresse per l’ambiente). Dopo la guerra riprende gli studi e si laurea nel 1920, specializzandosi in Neuropsichiatria. Continua a prediligere, tuttavia, la frequentazione dell’ambiente teatrale, intellettuale e di sinistra della Berlino di quegli anni che gli offre uno degli incontri tra i più significativi per la sua vita e la sua professione: quello con il filosofo espressionista Salomon Friedlander (autore che sviluppa l’ipotesi di “vuoto fertile”, il punto zero definito da Ginger come equilibrio tra polarità opposte tema che avrà una importanza sostanziale nella Gestalt).

A 30 anni effettua un primo tentativo di stabilirsi a New York ma le difficoltà linguistiche e l’intolleranza alla cultura fortemente competitiva americana lo fanno tornare in Germania, ad abitare con la madre e dove vivrà in uno stato di abbrutimento. L’incontro con Lucy, una donna molto importante nella sua vita, gli ridonerà fiducia nella sua potenza sessuale ‘sperimentando’ insieme diverse modalità di rapporti sessuali. In questo periodo decide di intraprendere una prima analisi personale. A 33 anni incontra Karen Horney che influisce molto sulla sua scelta professionale di psicoanalista. Lascia Lucy e si trasferisce a Francoforte dove diventerà assistente di Kurt Goldstein (che lavora con tramautizzati cerebrali tentando delle connessioni con le scoperte sulla percezione della Psicologia della Gestalt) e dove incontra Lore Posner (Laura) con la quale si sposerà. Nel ‘27 intraprende una seconda terapia (con H. Deutsch); nel ‘28 una terza analisi con E. Harnik, psicoanalista ultra-ortodosso.

Nel 1931 la Horney suggerisce a Perls di iniziare un’analisi, la quarta, con Wilhelm Reich, psicoanalista non troppo ortodosso; questo percorso influenzerà molto la sua futura elaborazione professionale, apprendendo essere importante l’osservazione ed il contatto con il paziente anche dal punto di vista fisico (per poter vedere i punti di contrazione e i blocchi della corazza) e per prestare attenzione al presente più che al passato.

Il 1931 è un anno molto importante per Perls: la sua professione si può dire ben avviata. Ma sono gli anni in cui in Europa si comincia a sentire il “rumore” del nazismo e ben presto è costretto a fuggire, prima in Olanda e poi in Sud Africa dove accetta una proposta di lavoro come psicoanalista da parte di Ernest Jones.La sua opera Ego, Hunger and Aggression (in collaborazione con la moglie) rappresenta, in un certo senso, il punto di rottura con la psicoanalisi. Perls sottolinea il fondamentale ruolo della concezione olistica della persona e, influenzato dagli studi della semantica, condivide il fatto che tutte le esperienze sono multidimensionali, che le emozioni hanno un impatto sugli aspetti intellettuali e viceversa, e in terapia occorre tener conto di questo e sviluppare un approccio integrativo: vengono compresi come rilevanti anche il linguaggio e il suo contesto semantico.

Terminata la guerra si trasferisce negli Stati Uniti dove, nonostante sia criticato per il suo comportamento provocatorio e ribelle: suo trasgredire le regole terapeutiche avendo rapporti sessuali con i suoi clienti, uomini e donne, ha tuttavia molti clienti. Si comincia ad interessare sempre più alla terapia di gruppo. Frequenta assiduamente gli ambienti bohémiens, quelli dell’intellighencia di sinistra ed il teatro; in questi ambienti incontra Paul Goodman (allora poeta e scrittore) che diverrà una delle figure di maggior rilievo, sia nella fondazione della nuova scuola che nell’elaborazione dei primi passi teorici del nuovo modello.
A Perls, Laura e Goodman, presto si aggiungono altre figure e così nel 1950 si forma il Gruppo dei Sette: Fritz e Laura Perls, P.Goodman, P.Weisz, I.From, E.Shapiro, S.Eastman, ai quali si aggiunse R.Hefferline. Nel 1951 esce la prima pubblicazione, La Terapia della Gestalt: vitalità e accrescimento nella personalità umana (Perls, Hefferline, Goodman), in due volumi. Non sono omogenei tra loro nell’elaborazione e rispecchiano le differenti tendenze intellettuali dei rispettivi autori (Perls; Goodman). Prevale l’approccio più intuitivo e meno terico/intellettuale, che progressivamente comincia ad essere preponderante nell’insegnamento e nella pratica di Perls. Dopo aver fondato i primi Istituti di Gestalt (’52 a New York, ’54 a Cleveland) Perls ricomincia i suoi viaggi di insegnamento ed esperienze, dove prende spunti teorici e pratici che integrerà poi nel suo lavoro: “sensory awareness”; psicodramma-monodramma.. Perls è alla ricerca di un perfezionamento del suo metodo empirico e, anche se lavora ancora secondo procedure verbali, si spinge sempre più sul vissuto del qui ed ora, sul contatto diretto nella diade della relazione terapeutica e sulla modalità dell’identificazione successiva con le varie parti del sogno.

Accentuare l’aspetto esperienziale del processo terapeutico significa per Perls offrire al paziente la possibilità di ottenere un proprio insight, dandogli un alto grado di controllo su ciò che apprende di sé durante la terapia.

In questi anni si accentua la spaccatura tra Perls (vicino alla scuola dell’Ovest, californiana) e gli Istituti di New York e di Cleveland (East Coast), in cui, da Laura Perls e da Goodman, sta crescendo una nuova generazione di gestaltisti, che seguono ed approfondiscono una metodologia di lavoro maggiormente legata agli schemi classici dell’interazione verbale. Una spaccatura ancora attuale, anche se connotata da più sinceri tentativi di integrazione.

Stanco, demotivato, Perls sente di non avere riconoscimenti adeguati e a 63 anni si ritira in Florida, insoddisfatto anche del rapporto con Laura. Un anno dopo, nel ’57, sarà di nuovo un incontro con una donna a fargli ritrovare la motivazione a vivere; Marty , una sua paziente, con la quale inizia una relazione così intensa da portare Perls a definirla come la donna più importante della sua vita. Con lei sperimenta le fantasie più audaci e contemporaneamente comincia a far uso di droghe psichedeliche e di LSD. Queste sperimentazioni danno sfogo a tutta la sua paranoia finché non viene lasciato. Ne esce distrutto e ricomincia un periodo di vagabondaggio. Tra il ’59 e il ’60 incontra a Los Angeles uno dei suoi primi clienti, Jim Simskin, che lo aiuta ad abbandonare la droga, sempre a Los Angeles fonda un nuovo Istituto di Gestalt. Con il suo sostegno Perls si ricostruisce una clientela, ma la sua inquietudine e l’istinto verso l’ignoto lo indurranno ad allontanarsi di nuovo. Il cambiamento che questo periodo segnò nella vita di Perls si evidenzia ad Esalen, un centro di crescita sulla costa californiana. Qui diventa un terapeuta famoso e carismatico e sembra trovare la pace tanto agognata. Sono gli anni in cui, a detta di Naranjo, che qui lo conosce e ne diventa prosecutore, Perls comincia ad esprimere la “fioritura del suo genio”. Tuttavia la Gestalt non fiorì e non esplose fino a quando non si creò la congiuntura favorevole con l’inizio del fenomeno californiano degli hippies: questo movimento controculturale si riconosce nello stile di vita e di lavoro terapeutico praticato da Perls, che viene riconosciuto come “re degli hippies” e portato alla gloria. Esalen comincia a riempirsi di persone che ogni fine settimana partecipano ai seminari. La registrazione di questi seminari viene tradotta nel testo Terapia della Gestalt parola per parola (1969).

Ad Esalen nasce un nuovo gruppo di collaboratori (Naranjo, Blumberg, Satir, …) che presto emergono nelle loro differenziazioni applicative. Si realizza l’idea della fondazione di una nuova comunità sul modello del kibbutz israeliano, in Canada, dove tutti vivono in comunità e partecipano al lavoro collettivo, così come alle sedute di terapia e formazione. E’ finalmente rilassato e felice.

Nel 1970, di ritorno da un viaggio in Europa, viene colpito da un infarto e muore a Chicago all’età di 77 anni.

Perls ha certamente evocato sentimenti e riflessioni in forte polarità fra loro, sia all’interno degli stessi individui sia tra le istituzioni che si sono occupate e tuttora si occupano di questo nuovo approccio.

Fondamenti psicologici e filosofici della Terapia della Gestalt

“Il tutto è diverso dalla somma delle sue parti.”

La parola Gestalt (tedesca)= totalità della forma di una struttura unitaria significativa = “configurazione globale”
Psicologia della Forma (o della Gestalt) e Teoria lewiniana del campo. Nel 1912 Wertheimer diffondeva i suoi studi sul fattore phi, detto principio integrante, attraverso cui l’organismo trasferirebbe le singole impressioni sensoriali di una serie nella percezione unificata di un movimento continuo: è il battesimo della Scuola della Gestalt, che si contrappone alle precedenti scuole associazionistiche ed atomistiche. Insieme, anche, a Kohler e Koffka viene approfondita l’intuizione della presenza nell’individuo di una maggior attività nella percezione: “nei termini dell’organismo percepiente: la ‘totalità significativa’ è lo stimolo”. Le figure (configurazioni) possono essere scomposte e analizzate in parti sussidiarie, che comunque conservano le medesime caratteristiche di figura/sfondo, cioè dell’intera configurazione.

Fu Kurt Lewin il primo a far uscire il modello gestaltico dai luoghi deputati alla sperimentazione e allo studio e ad innestarlo nella vita più quotidiana. Le sue concettualizzazioni mettono a fuoco soprattutto il rapporto individuo/ambiente., che definisce campo, una realtà dinamica in cui le Gestalten interagiscono. Tutto ciò che il soggetto percepisce nel campo è considerato e valutato, in positivo o negativo, in funzione del soddisfacimento dei bisogni dell’individuo (afferma che il bisogno organizza il campo). Chiara la forte implicazione terapeutica di tutto ciò: ogni individuo non può intendersi se non in relazione con l’ambiente di cui fa parte, in cui agisce attraverso un’attività di problem-solving orientata all’intercettazione della forma pregnante, (buona), per il soddisfacimento dei bisogni. Un bisogno non soddisfatto (Gestalt o lavoro interrotto) può allora presentarsi ripetutamente fino al soddisfacimento e Perls, allargando questo principio alla dimensione esistenziale e di sviluppo dell’individuo, ha elaborato il concetto di ciclo del contatto, o stato di buona salute (assenza di ciclicità nevrotica).

Perls ed i suoi collaboratori sono stati tra i maggior sostenitori di quella che viene definita la Terza Forza della Psicologia, la psicologia Umanistico-esistenziale che nasce negli Anni 50 con il lavoro di May, Rogers, Moreno, e che tiene in gran conto l’approccio teorico della corrente esistenzialista europea. Si oppone all'”oggettivismo” della Psicoanalisi e del Comportamentismo sottolineando la possibilità di allargare il campo di azione e la libertà di scelta degli individui attraverso lo sperimentare piuttosto che il comprendere o l’apprendere.

Oggi include molte metodologie ed approcci terapeutici legati tra loro, la visione dell’intervento terapeutico ha come valore la restituzione alla persona il suo diritto di costruire la propria unicità, soddisfare i bisogni, valorizzare il corpo e le sue esperienze, esprimere emozioni, realizzarsi e svilupparsi secondo i propri desideri/bisogni, creando un proprio sistema di valori. La considerazione dei bisogni non materiali e l’accento posto sulla ‘normalità’ dei comportamenti e l’inutilità delle categorizzazioni nosografiche sono premesse che ben si inquadrano nella Terapia della Gestalt, ponendosi come metodo attivo per lo sviluppo delle potenzialità “sane” degli individui. Anche i sintomi sono visti nella struttura complessiva della persona, si pone ascolto ad essi per poi intensificarli, per meglio comprenderne il messaggio e l’emergenza della Gestalt più urgente nel qui ed ora, quindi la relazione del soggetto e con l’ambiente. I disturbi psicologici sono considerati ‘rotture di Gestalt’ ed interruzione nell’unità dell’essere: la prospettiva olistica quindi non è più la semplice eliminazione o riparazione dei sintomi, ma lo sviluppo ed il mantenimento di una soddisfacente armonia, che diviene l’obiettivo principale della terapia gestaltica. La ‘normalità non è un adattamento sociale ma una capacità di inventare nuove regole attraverso l’adattamento creativo tra la propria realtà vera, e quella dell’ambiente (attraverso quello che Perls ha definito il processo di autoregolazione organismica).

Le influenze più dirette ed incisive sul modello gestaltico provengono dall’indirizzo fenomenologico-esistenziale.

Alcuni principi di fondo condivisi dall’esistenzialismo:
• Impossibilità del ripetersi di un’esperienza (valore della soggettività e della libertà che si situa nel possibile e nella scelta)
• Rilevanza data al vissuto corporeo (l’esistenza concreta, l’esser-ci)
• Responsabilità personale dell’individuo.

Se tutto è soggettivo e non ripetibile non serve creare delle leggi: tutto quel che si può fare (soprattutto in ambito terapeutico) è osservare ciò che si manifesta ed avvicinarsi in modo libero e consapevole all’unicità dell’individuo.

L’opera d Perls, e soprattutto lo sviluppo del modello gestaltico delle polarità, è influenzata dall’elaborazione della teoria del “pensiero differenziale” del filosofo Friedlander: “ogni evento è in relazione a un punto-zero da cui prende inizio una differenziazione in punti opposti…Rimanendo vigili sul punto centrale, si può acquisire l’abilità creativa di vedere entrambe le parti di un evento e completare l’altra metà incompleta…”. Gli opposti vengono così ricongiunti nel punto da cui avevano preso inizio: il punto-zero (individuabile sia come inizio che come centro), in cui si attua il ritorno al pre-differente, a qualcosa che non era differenziato e da cui gli opposti si erano separati. Attraverso questo processo, prima della differenziazione e di ritorno al punto di pre-differenza, si raggiunge l’equilibrio. Tale equilibrio è ricercato da ogni sistema per poter sopravvivere e soddisfare i bisogni. Il cattivo funzionamento del processo porta all’alienazione e alla nevrosi.

Nella complessa tematica della polarità si inserisce la Semantica Generale di Korzybsky: nel suo tentativo di superare il determinismo delle Leggi di Realtà e di Pensiero della logica aristotelica. Egli afferma come la realtà dinamica e contestuale dei dati dell’esistenza possa esprimersi ed acquisire significato attraverso ed entro un processo di storicizzazione del qui ed ora e spesso in ciò che non è determinato in modo fisso e conosciuto.

Perls si dedica alla definizione di un ‘metodo praticabile’ per avvicinare l’uomo occidentale alla dimensione di auto-trascendenza dello Zen. Vede il limite del metodo in un’estremizzazione sul lato opposto della auto-conoscenza poco in contatto con il mondo, ma riconosce il valore di “allargamento della consapevolezza” e di “liberazione del potenziale umano”.

Le idiosincrasie tra la Psicoterapia della Gestalt e lo Zen si evidenziano principalmente in: Consapevolezza assoluta per lo Zen e consapevolezza come esperienza soggettiva per la gestalt. Principio zen di totale sottomissione ad un maestro e di disciplina assidua che mira ad abbandonare l’ego contrapposto alla responsabilità del soggetto, del proprio percorso, e alla valorizzazione del contatto, nella gestalt.

Le confluenze con lo zen si possono ritrovare nel “mollare la presa”, cioè lo stato di vigilanza/attenzione senza aspettative, che conduce la conoscenza e permette l’attuazione permanente del ciclo del contatto/ritiro; il principio del fluire energetico del continuum di consapevolezza o flusso costante di distruzione e costruzione; la valorizzazione del qui ed ora dell’esperienza immanente e del corpo, come rappresentativo ed unificato della dimensione più spirituale dell”individuo, (principio unificatore dello zen).

Un’altra dimensione che la Terapia della Gestalt ha in comune con il Buddismo e le sue diverse forme è il principio di integrazione delle polarità, che trova il suo corrispettivo nel principio delle polarità dinamiche Yin (femminile) e Yang(maschile) del Tao, nell’anima ed animus di Jung.

Perls afferma: “in molte nevrosi, come in molte psicosi, vedo la sostanza maschile e la sostanza femminile in forte conflitto; nel genio vedo questi opposti che si integrano…”.

Non si può tralasciare la concordanza tra la concezione del corpo che ha il Tantrismo e la centralità che ad esso viene assegnata nella Gestalt, come strumento per arrivare alla consapevolezza.

La Psicoterapia della Gestalt fonda le sue radici soprattutto nella Psicoanalisi, anche se il suo sviluppo e la sua originalità derivano prioritariamente dal processo di contrapposizione ad essa. Le critiche iniziali alla teoria e metodo di Freud sono basate sull’aggressività orale. Nella Gestalt l’aggressività non è un istinto (di morte), ma una caratteristica essenziale del mangiare. Senza di essa non possono esserci l’assimilazione che porta alla crescita, a fare proprie o rifiutare le parti introiettate. L’aggressività si evidenzia allora come componente orale, un processo modellante i futuri schemi di relazione con il mondo e una delle dimensioni essenziali del contatto. Attraverso la sua espressione si sostanzia l’istinto vitale; viceversa, il timore di essa e del conflitto sono alla base della patologia nevrotica.

Il transfert viene escluso dal modello gestaltico sia concettualmente che operativamente, così come la nevrosi da transfert, intravedendo la pericolosità della dipendenza dall’analisi e dall’analista, impedendo al cliente l’assumersi la consapevolezza delle proprie responsabilità. Inoltre, leggere i contenuti del paziente solo in chiave transferale, può servire come ‘alibi'(neutralità benevola dell’analista) per non entrare in contatto con l’altro. Come il transfert non è più la strategia prioritaria di cura, così l’inconscio non ha più il suo ruolo centrale: Perls non lo nega e si accosta ad esso riportandolo al presente, lavorando con il cliente sul come (non sul perché) del manifestarsi presente dei processi nevrotici, per arrivare alla consapevolezza di ciò che in questo momento, ora, è rimosso al conscio. Il “come è tutto quello che ci serve per capire come funzioniamo”; l’ora comprende tutto ciò che esiste, l’esperienza, il fenomeno, la consapevolezza. E tutto si fonda su quest’ultimo termine: Perls infatti ritiene la consapevolezza l’unica base possibile di conoscenza e comunicazione. E non può essere raggiunta con l’utilizzo delle tecniche freudiane delle libere associazioni e delle interpretazioni delle resistenze, viste come un modo per evitare l’esperienza e dove la verbalizzazione è troppo anticipata e il contatto con le parti scisse impedito. L’ ‘oggetto’ primario dell’osservazione psicologica e del lavoro terapeutico non è più il “Sé autoriflesso” della Psicoanalisi, ma il contatto, il luogo fisico o psicologico in cui il Sé e l’ambiente stabiliscono la loro relazione e la loro esperienza.

Il percorso esperienziale gestaltico si serve anche del sogno. Perls portò avanti la concezione junghiana del “sogno come proiezione”: “…tutte le diverse parti del sogno sono frammenti della nostra personalità”, che vanno messi insieme per riappropriarsi delle parti proiettate e poterle integrare. Il sogno come tentativo di espressione e non di mascheramento.

Oltre all’importanza attribuita al lavoro sulle parti scisse e sulla loro integrazione all’interazione simbolica piuttosto che a quella verbale, va sottolineata l’attenzione dedicata alle espressioni non verbali dell’individuo. Profonda l’influenza di Ferenczi, che dà notevole rilievo al corpo e a tutte le sue manifestazioni (tecnica del radicamento, il grunding) e di Winnicott (tecnica dell’holding, di maternage,…). Ma tra coloro che hanno influenzato la Psicoterapia della Gestalt, chi più di tutti valorizza il corpo e le necessità dell’espressione totale del cliente è Reich (discarica delle tensioni, contatto fisico dell’armatura corporea,…).

Dalla fenomenologia della rappresentazione psicodinamica – Alla fenomenologia del contatto/confine gestaltico

Psicoanalisi Gestalt

1. L’inconscio  – La formazione Figura/Sfondo
2. Il Transfert – Il Contatto al Confine
3. L’Interpretazione e l’Insight – La Consapevolezza
4. Le Libere Associazioni – La Sperimentazione dell’Esperienza

Dalla Terapia della Gestalt si sono sviluppati tre principali filoni: la Gestalt del cuore (Cleveland), caratterizzata da un orientamento più emozionale e sociale, come anche possibile raccordo tra l’indirizzo teorico e quello a supporto verbale, la cosiddetta Gestalt della testa (New York e Boston, Costa Orientale) e la Gestalt delle viscere, che supporta fortemente l’uso delle emozioni del corpo e del gruppo (Costa Occidentale, da Esalen a San Francisco, Los Angeles, San Diego).

La Gestalt ha trovato applicazione in ambiti molto diversi tra loro e soprattutto si è rivelata possibile una sua integrazione con altri modelli e tecniche terapeutiche.

La consapevolezza come autoregolazione spontanea dell’organismo tra scoperta e sapere

La consapevolezza gestaltica è un insight che include
• Presa di coscienza
• Illuminazione
• Percezione intuitiva
• Autorivelazione

Insieme alla Consapevolezza (presente) : mente+corpo+contesto

L’organismo è la Gestalt, la figura emergente, la totalità in grado di autoregolarsi per la propria sopravvivenza, che si muove nel campo-sfondo della totalità, per entrare in contatto-scoperta con l’ambiente attraverso una struttura. La conoscenza-contatto dell’organismo avviene al confine del contatto, nell’epidermide, dove si verifica l’esperienza e dove l’organismo, tendente a realizzarsi spontaneamente, sa come arrivare a soddisfare i suoi bisogni (considerazione vitalistica della conoscenza). Nel suo esplicarsi l’organismo ha un’alta capacità discriminante rispetto a ciò che è buono ed a ciò che è cattivo e questo costituisce la base organica della creazione valoriale. Perls sembra andare oltre la semplice definizione corporea dell’organismo, ponendo attenzione alla “struttura”, di cui non porta una chiara definizione ma di cui rileva il processo attraverso il quale essa si evidenzia, il suo modo di funzionare (destrutturazione-integrazione-alienazione), che è analogo a tutte le strutture. La conoscenza strutturale è indispensabile per una corretta impostazione del processo terapeutico, perché solo attraverso la verifica delle differenze (contenuti del processo), che rendono una struttura organismica diversa dalle altre, si arriva a scoprire cosa rende una molteplicità un’unità.
2.2 Gli elementi costitutivi dell’approccio gestaltico: la Teoria del Sé ed il principio di responsabilità organismica del Sé

Presupposti teorici e fondamenti concettuali
• L’organismo umano funziona per crescere ed autorealizzarsi
• I bisogni costituiscono gli organizzatori del comportamento e l’essenza dell’agire
• L’organismo e l’ambiente sono in interdipendenza costante
• Il processo autoregolante non è mai stabile ma alterato da nuovi bisogni emergenti
• La patologia emerge quando il naturale movimento(attrazione/repulsione-contatto/ritiro) va fuori ritmo

La teoria del Sé (Self)

Il (Sé) non è un’entità fissa né un’istanza psichica (come l’Io) bensì un PROCESSO specifico: non è l’Essere… ma l’ESSERE AL MONDO.

La metafora del Sé si raffigura come: “Agente di contatto con l’ambiente (al presente-momento per momento) che consente lo scambio e l’adattamento creativo fra individuo/ambiente”. (Tra mondo interno/ambiente esterno).

Il luogo in cui questo processo si manifesta è il confine del contatto, cioè il confine tra l’individuo e il mondo, dove si evidenziano tutte le modalità e i meccanismi di funzionamento del Sé. Acquisire un senso di identità Coerente Coesa e Consistente = Possedere le fondamenta di un confine

Confine come dimora dell’identità, luogo di interconnessione mediante il ‘con-tatto’ (funzione osmotica che contiene l’organismo e gli consente di entrare in contatto con l’ambiente) e organo della consapevolezza (fa prendere contatto e coscienza della situazione nuova del campo).

Contatto prende forma al confine di una relazione dinamica in uno spazio comune per consentire un rapporto.
Nel momento in cui l’organismo contatta l’ambiente entra in azione la funzione-Sé, che agisce secondo tre modalità: l’Es-l’Io-la

Personalità
Gli aspetti del Sé (3 Funzioni)
La funzione ES : La percezione sensoriale (corporea) delle stimolazioni interne
ed esterne. (Pre-contatto)

La funzione IO : La definizione dei bisogni e la propria identificazione con essi.
(Contatto e contatto pieno)

La funzione Personalità:

Il definirsi nella propria storia in divenire. (Post-contatto)
La funzione Io è il fare creativo catalizzante del Sé che collega la funzione Es (di cosa ho bisogno?) con la funzione Personalità (chi sono?); se efficace il risultato sarà un comportamento autoregolativo soddisfacente per l’organismo. Altrimenti si parlerà di ‘perdita della funzione Ego’ e di resistenze come interruzioni del contatto. Le modalità di interazione funzionali o disfunzionali meglio si comprendono illustrando il ciclo del contatto-ritiro (o ciclo della Gestalt, ciclo esperienziale,…): è proprio attraverso il completamento di tutto questo processo che le Gestalt che man mano si aprono, spinte dall’insorgenza di nuovi bisogni, vanno a cercare e trovare la loro conclusione.

Tempi Pre-contatto Contatto Contatto finale Post-contatto
Fasi Orientamento Manipolazione Esperienza Apprendimento
Funzioni del Sé Funzione-ES Funzione-IO Funzione-Personalità
Modalità relazionali Confluenza, Introiezione, proiezione, retroflessione, contatto Ritiro dal contatto, egotismo
Contatto e ritiro si susseguono se il ciclo è sano. Ci sono degli elementi fondanti che strutturano l’esperienza di contatto: la consapevolezza e la direzionalità, la manipolazione (come eccitazione ed azione) e la risposta emozionale (la “consapevolezza integrativa di un rapporto tra l’organismo e l’ambiente”).

Le FASI del CICLO DEL CONTATTO SANO

1- Contatto preliminare: (Pre-contatto)
L’organismo è mobilitato da uno stimolo interno o esterno

2- Contatto:
decisione responsabile di azione verso l’ambiente
orientamento

3- Contatto pieno (finale):
fusione a confine aperto, con modalità attiva/passiva e con un’aggressività costruttiva a modifica della realtà, senso di compimento; (masticazione-CAMBIAMENTO).

4- Post-contatto (ritiro):
è la fase della digestione/ASSIMILAZIONE; precede l’integrazione dell’esperienza nella dimensione storica e di crescita.

La funzione consapevolezza assume una posizione centrale tra le qualità del Sé: aspetto fondamentale è che la funzione-Io cerativa del Sé può realizzare di volta in volta le qualità di confine necessarie alla situazione, stabilendo in base al momento ed alle corrispondenti condizioni che si delineano nel campo quello che può essere accettato, respinto, assorbito, ecc. Tutto ciò accade al confine di contatto, che assume caratteristiche di permeabilità diverse a seconda della fase di contatto in cui l’organismo si trova.

Il CONTATTO:

attraverso esso è possibile acquisire un senso del Sé e di visione del confine di contatto. Differisce dalla fusione, perché come contatto esiste solo quando c’è un senso di separazione che viene adeguatamente mantenuto

I CONFINI DEL CONTATTO:

rappresentano la dimensione psicologica che distingue una persona dall’altra, una persona da un oggetto o una persona dalle sue stesse qualità.
Confini-corpo. Sono quelli che possono limitare le sensazioni o metterle in una situazione off-limits
Confini-valore. Sono quelli che stabiliscono i valori che abbiamo e che siamo restii a modificare.
Confini-intimità. Si riferiscono a quel tipo di eventi che si ripetono spesso, ma che non possono essere pensati o, peggio, essere messi in discussione.
Confini-espressività. Sono appresi nei primi anni di vita, quando impariamo, ad esempio, a non urlare, non piagnucolare, non toccare e così via.

Ansia: la nostra energia libera

Scritto dal dott. Marco Montanari Psicologo – Psicoterapeuta, Integrazione Posturale. Pubblicato sulla rivista medica Miafarmacia magazine.

L’ansia viene legata non solo alle emozioni ed ai sensi, ma a tutte le funzioni. La definizione tradizionale di ansia è: sentimento particolare o sensazione penosa e continua, per qualcosa che sta per accaderci ma che non conosciamo. Quando l’ansia giunge a stadi di particolare intensità diventa angoscia. Nell’ansia è come se dicessimo con lo sguardo, con gli occhi e con la bocca: “non lo so”, attraverso manifestazioni di ansia vogliamo comunicare che qualcosa non ci è chiaro e ci sovrasta.

Questo particolare stato d’animo gravita nella stessa area emozionale della paura: ansia e paura possono considerarsi talvolta sinonimi. Queste due emozioni differiscono nella reazione allo stimolo, nel tipo di soluzioni che vengono messe in atto e nella rapidità dell’estinzione dello stato emotivo.

La paura è generalmente considerata un’emozione più specifica: una risposta puntuale a determinati stimoli esterni o interni, comunque reali, per cui sono previste reazioni di fuga, di difesa attiva, o di attacco. L’ansia diversamente è considerata uno stato emotivo diffuso e fluttuante, privo di un obiettivo ben definito e originato da stimoli generalmente neutri. L’ansia è uno stato psichico più complesso della paura, non soltanto perché si estingue molto più lentamente, ma anche perché è caratterizzata da una combinazione di emozioni diverse quali: disagio, rabbia, timidezza, vergogna, senso di colpa, o in positivo, eccitazione e interesse.

L’ansia generalmente riguarda eventi futuri, in questo caso comporta un atteggiamento di pre-occupazione: occuparsi prima di qualcosa che non si conosce.

Psicofisiologia dell’ansia:

I sintomi principali possono essere dispnea (mancanza di respiro), instabilità, sensazione di svenimento, tremore, tachicardia, sudorazione, sensazione di asfissia, nausea, senso di troppo freddo o troppo caldo, fastidio, costrizione al torace, paura di morire, paura di uscire fuori di senno, aumento della gestualità e dell’automanipolazione. Riguardo a quest’ultimo punto capita spesso di osservare quanto, anche involontariamente, alcune persone toccano ripetutamente parti del corpo: il naso, le unghie, i capelli.

Questi sono segnali non verbali che indicano ansia. Manipolandosi, l’individuo cerca da un lato di controllare l’ansia (che nasce anche dal conflitto tra ciò che vorrebbe e ciò che non osa fare), e dall’altro lato tenta di dare una direzionalità ai suoi movimenti: invece di orientarli all’esterno verso un obbiettivo risolutore, li orienta su sé stesso.

Gli studi più recenti mostrano che le reazioni di paura avvengono su tre livelli: il primo a livello del sistema nervoso simpatico, il secondo a livello neurormonale, e il terzo a livello dei nuclei sottocorticali del cervello. Il sistema nervoso simpatico, attivato in tutti gli stati di emergenza, comporta l’entrata in azione di sinapsi (giunzioni nervose) nel nostro cervello, le quali funzionano attraverso la mediazione di una sostanza (la norandrenalina) che ha effetto sull’attivazione cerebrale e quindi sul comportamento. Un segno tipico dell’effetto di questi mutamenti fisiologici è il dilatarsi della pupilla, probabilmente connesso alla necessità di vedere meglio il pericolo, oppure l’innalzarsi rapido della pressione e l’aumento del battito cardiaco; in situazioni di emergenza queste reazioni consentono al soggetto di mobilitarsi immediatamente e di essere pronti a reagire. Altre reazioni avvengono a livello dei surreni al fine di consentire la metabolizzazione degli zuccheri e la regolazione dell’equilibrio idrosalino, aiutando così l’organismo a reagire agli stress durante un forte dispendio di energia; i corticosteroidi, come il cortisone, emessi dalle ghiandole surrenali sono “l’olio motore” del nostro corpo, ci aiutano a fronteggiare in modo istantaneo e dinamico le situazioni stressanti.

L’organismo è predisposto naturalmente a fronteggiare situazioni estreme di pericolo e di stress; queste immediate reazioni dell’organismo sono necessarie e naturali per la nostra sopravvivenza. I segnali del nostro corpo sono anche degli indici attraverso i quali codifichiamo la realtà: se, ad esempio, il nostro cuore ha un battito accelerato o abbiamo le vertigini, deduciamo istintivamente di essere in una situazione di pericolo.

James e Lange affermavano che non si fugge perché si ha paura, ma si ha paura perché si fugge: ovvero sia prima si verifica la modificazione fisica e poi, in seguito, quella emozionale. Il problema nasce quando, nonostante la situazione traumatica e frustrante sia cessata, persiste uno stato di allarme del nostro organismo anche in situazioni neutrali, ovvero non effettivamente pericolose.

Possiamo considerare l’ansia come energia libera in sospensione. Un naturale fenomeno fisiologico che nella sua indefinizione ci sta dicendo qualcosa, il più delle volte qualcosa di difficile da accettare. L’ansia ha in realtà un grande valore evolutivo, comprensibile solo se rendiamo possibile la canalizzazione di questa energia. L’atteggiamento da assumere di fronte ad uno stato d’ansia per iniziare dovrebbe essere quello di accettazione e non di repulsione. Anziché contrastarla, sarebbe molto importante, anche se altrettanto difficile, accedere e comprendere l’esperienza emozionale che stiamo vivendo in quel momento. Dietro ad ogni stato d’ansia c’è una nostra soggettività che implora imponentemente di manifestarsi, una risorsa non ancora portata alla luce, una parte dirompente ed esplosiva che se canalizzata nella giusta direzione può diventare un enorme potenziale fisico e intellettuale -creativo. Se questa energia viene lasciata ingestita, o tentiamo di negarla e reprimerla, essa continuerà a manifestarsi attraverso sintomi che possono incanalarsi talvolta in manifestazioni somatiche.

Nella maggior parte dei casi gli strumenti per raggiungere questa capacità di accettazione e di trasformazione dell’energia ansiosa ci possono venire a mancare, travolti come spesso siamo dall’inevitabilità e dalla potenza dei sintomi. In questo caso può essere utile il supporto di quello che in Psicosintesi viene chiamato “centro unificatore esterno”, tradotto in termini di una sana e solida relazione umana che ci faccia da specchio.

All’Istituto di Psicosintesi (Centro di Bologna, tel. 051 521656 , www.psicosintesibologna.it , bologna@psicosintesi.it) si organizzano corsi di gruppo su varie tematiche (ansia, attacchi di panico, psicosomatica, senso di colpa e vergogna, sessualità) e incontri psicologici individuali.

Bibliografia del testo:

Freud S. inibizione, sintomo e angoscia (1925) vol. 10

Rank O. il trauma della nascita (1924) Guaraldini, Rimini 1972

Watson J. B. conditioned emotional reaction, J. Exper. Psicol. , vol 3, I-14 (1920)

Klein M. Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco- depressivi (1940)

Bowlby J. Attaccamento e perdita, vol.2 la separazione dalla madre (1973) Boringhieri, Torino (1998)

Oliverio Ferrarsi A. psicologia della paura, (1998), Boringhieri, Torino.

Wells A. trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia, (1999) Mc Graw Hill, Milano

De Silvestri C. il mestiere di psicoterapeuta, (1999) Astrolabio, Roma.

Inconscio ed energia

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.

Considerando che l’ottanta per cento delle nostre azioni non sono decise da una volontà cosciente, ma condizionate da un influsso sub-cosciente, vogliamo qui considerare, in una breve parentesi conoscitiva, l’arduo e importante argomento dell’inconscio. Freud, dando grandissima attenzione all’inconscio, fu il pioniere della psicologia moderna. In realtà l’esplorazione dell’inconscio è da sempre esistita, dall’uso dei riti sciamanici e dalle esplorazioni transpersonali introdotte nei gruppi tribali. Il fine era sempre curativo ed esplorativo. Dobbiamo ricordare che Freud proveniva da una sana e repressa società Vittoriana d’inizio ‘900 che ingabbiava le donne con l’uso comune del busto e reprimeva gli istinti sessuali, dove le peggiori patologie erano paresi da conversione isterica, afasie, nevrosi di ogni genere. La Vienna dell’epoca era un collettivo che pullulava di cultura e positivismo, mescolato al romanticismo tedesco, nel quale vi era un forte ritorno alle forze della natura e al corpo.

In questo contrasto tra passione e repressione, tra la forte necessità di rompere i tabù e l’emergente esigenza di inquadrare scientificamente gli inspiegabili movimenti della psiche, Freud creò un setting adeguato, caratterizzato dal paziente che si racconta sdraiato sul lettino e l’analista, impegnato in un ascolto silenzioso. Questo fu il principale strumento dell’epoca per un’esplorazione del subcosciente. Tra analista e paziente non vi era alcuna relazione emotiva, alcun dialogo, nessuno scambio reciproco, ma semplicemente uno spazio che permetteva di allentare le briglie del cavallo impazzito degli istinti e delle fantasie, lasciando adito ai movimenti psichici più repressi.

Secondariamente alla rilevanza dell’inconscio, un altro grande merito di Freud fu quello di aver dato un appellativo alla forza che lo muove e che ne determina le sue manifestazioni, un’energia che nominò libido. La scoperta dell’inconscio rimarrà sempre una scoperta indiscussa per ogni psicologo e analista futuro ed è un fermo punto di partenza per conoscere l’uomo nella sua autenticità e realtà intima. Scrive Assagioli: “l’importanza della scoperta dell’inconscio è stata paragonata alla scoperta dell’America, di un nuovo continente.”

Non è compito facile definire in poche e semplici parole l’inconscio usando termini comuni e accessibili a tutti, essendo l’inconscio per sua natura talvolta inafferrabile e di difficile classificazione oggettiva. La sua inafferrabilità rende il rapporto con esso ancora più ostico e lontano, per questo motivo viene spesso riservata a pochi l’esplorazione dei suoi meccanismi e delle sue realtà. Mi rincresce verificare la comune difficoltà del rapporto tra ogni uomo e le sue dinamiche inconsce. Nella fattispecie un buon rapporto con tali forze permette infatti di migliorare la qualità delle nostre vite elevandole da una condizione in cui ci lasciamo vivere verso una piena vita, da un esistenza per condizione ad un esistenza per decisione.

Avviciniamoci al tentativo di sviscerare questa definizione. Possiamo paragonare l’inconscio alla musica o all’energia elettrica; comprendiamo cos’è la musica solo se viene provocata una vibrazione, un’insieme di vibrazioni formano una melodia ed essa ha un effetto dentro di noi; allo stesso modo l’energia elettrica la vediamo se causa una forte scossa, quando aziona un elettrodomestico o accende una lampadina. L’inconscio può essere paragonato ad una stagione; per spiegare cos’è una stagione passiamo attraverso l’osservazione diretta delle sue caratteristiche. L’inverno ad esempio lo riconosciamo per il clima freddo, gli alberi spogli, l’accorciarsi delle giornate, la primavera per la comparsa dei primi caldi, per lo schiudersi dei primi fiori, per il volo delle rondini.

Così la definizione di inconscio non può essere slegata dalla manifestazione dei fenomeni. In particolare esso è legato all’osservazione dei fenomeni non volontari, non coscienti, che sfuggono al controllo e alla consapevolezza personale. Pensiamo, per esempio, quando persiste nella mente un pensiero senza volerlo, magari un banale motivetto musicale che non riusciamo ad azzittire, e si oppone ostinatamente alla nostra volontà cosciente di scacciarlo. Oppure si presenta un’impellente necessità, un bisogno, un impulso. Quando siamo governati da queste forze a volte tutto il resto passa in secondo piano, in quel momento l’inconscio è più forte. Tutte le volte che compiamo atti o diciamo parole senza volerlo, o quando non riusciamo a svolgere un compito, a concentrarci, perchè continue distrazioni come sensazioni, stati d’animo, pensieri ricorrenti invadono il nostro campo percettivo. Anche quando sogniamo, attività oniriche negative, incubi, fantasie coronate da immagini fastidiose, stati d’animo, umori, in quel momento i fenomeni dell’inconscio si manifestano. Almeno una volta al giorno siamo assoggettati da questi movimenti interni. Non parliamo dell’inconscio soltanto attraverso attributi negativi, esso è amico ed alleato e ci viene incontro se pensiamo a tutte le ispirazioni, le intuizioni, le rivelazioni, i sentimenti altruistici o quando dopo aver imparato qualcosa possiamo ripeterla, senza impararla di nuovo, pensiamo all’abilità di guidare un’automobile o imparare un mestiere, una lingua, fino a tutte quelle esperienze che ci hanno arricchito.

Alleato o nemico che sia, per comprenderlo ed usufruire delle sue energie dobbiamo prendere in prestito le qualità della sua eterna antagonista: la coscienza. Il rapporto tra inconscio e coscienza è come quello tra bene e male, tra vita e morte, non si può parlare dell’uno se non c’è l’altro. Il termine energia legato all’inconscio è usato la prima volta da Jung nel 1928 quando nel saggio “energetica psichica” si discosta dall’approccio interpretativo di Freud e dalla visione meccanicistica degli elementi inconsci. Jung introduce una visione completamente energetica. Afferma che gli elementi inconsci non vanno visti come fenomeni consequenziali e causali, ma energetici. Avvicinarsi alla concezione energetica significa comprendere l’essenza profonda di ogni fenomeno inconscio, il profondo significato, partendo dall’esperienza diretta. Dal termine libido quindi, che significa dal latino desiderio, Jung passa ad una concezione di energia psichica simile a quella di energia vitale. Possiamo chiamarla anche la forza vitale intrinseca espressa in ogni fenomeno inconscio. Per questo motivo Jung insiste molto sulla necessità di conoscere simboli e archetipi per sperimentare, comprendere, connetterci e usufruire delle energie in essi racchiuse. Ritengo che aprire le parentesi concernenti questi termini porti ad inoltrarci in contenuti molto ampi che possono forse annoiare il lettore, pertanto mi soffermo sul tentativo di sottolineare l’importanza del confronto tra inconscio e vita quotidiana. In particolare parliamo della esplorazione delle parti subcoscienti nella relazione terapeutica.

Il lavoro psicoterapeutico è principalmente un percorso di contatto dei nostri vissuti. La psicoterapia nell’immaginario comune è vista come un difficile “scavare” dentro se stessi, trovare e risolvere fantasmi del passato che incombono pericolosamente sul presente. Il contatto con la ferita è il principale lavoro di un percorso psicoterapeutico. Perchè questo bisogno di ricontattare parti così dolorose e negative? Perchè questa diventa una prerogativa di cura? Le ferite e i traumi, come ogni altro fenomeno inconscio, rappresentano energie importanti che necessitano di essere ricontattate e sciolte. Sono momenti di vita molto forti capaci di aver interrotto le possibilità di evolverci e di gioire. I momenti di sofferenza possono portare ad un cambiamento significativo. Sono momenti che hanno interrotto un libero fluire delle nostre esistenze. Ritornare nella ferita significa tornare nuovamente davanti ad un limite che non è stato sciolto in passato, dove non c’è stata la possibilità di accogliere, contenere e risolvere un vissuto troppo grande che ci ha fermato. Ricontattare queste parti significa riappropriarci di un contenuto vitale inconscio. I sentimenti non espressi in passato contengono un alto voltaggio energetico di cui dobbiamo poter usufruire nel qui ed ora. Pertanto queste esplorazioni, pur dolorose che siano, ci rimettono in relazione con importanti e intensi tratti di noi stessi. Molte volte quando queste realtà interiori sono molto forti e troppo difficili da sostenere, l’aiuto di uno psicoterapeuta diventa un occhio attento, uno specchio, un contenitore, una guida.

Con lo sguardo rivolto al traguardo di una vita armoniosa, possiamo definire la felicità quella gioia di esserci in modo creativo, aperto, dato dalla possibilità di fluire senza attaccamento a questo o a quello, ma in una consapevolezza presente e partecipe. Il contatto continuo e dinamico con le energie dell’inconscio ripristina questo dinamico fluire e scioglie le briglie che lo hanno ostacolato in passato, ci permette di connetterci nuovamente con una profonda vitalità. L’armonica mutabilità esterna diventa specchio di un armonico fluire interno, che non è assenza di vincoli, ma capacità di scelta, direttività e intenzione di conoscenza.

Il maschile ed il femminile dentro di noi – Prima parte

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.

Quante volte ci accorgiamo di esprimerci con qualità che appartengono più al femminile o al maschile. Dolcezza, accoglienza, sensibilità e fragilità da una parte, aggressività, determinazione, responsabilità e potere dall’altra. Sono attitudini e atteggiamenti spesso così radicati da definire la personalità ed il carattere, evidenziati soprattutto nella relazione con gli altri.

Ci sono indiscutibili differenze fisiche tra uomo donna, comprendono le caratteristiche anatomiche e fisiologiche primarie, tra le quali la più evidente è la presenza del pene e della vagina o la distribuzione della peluria e del grasso nel corpo. Geneticamente l’uomo possiede il cromosoma Y che la donna non ha, e sin dagli stadi più precoci dello sviluppo determina produzione di testosterone. Differenze fisiche tra maschile e femminile sono quindi una espressione ormonale dei differenti cromosomi, la differenza nel maschio rispetto alla femmina della conformazione cerebrale, deriva proprio dall’azione del testosterone più che dalle aspettative culturali, e questo differenza continua tutta la vita. L’uomo ha un minor spessore del corpo calloso, cioè delle fibre che connettono i due emisferi cerebrali, ha anche minore distribuzione dei centri del linguaggio rispetto alla donna, questo determina una più marcata specializzazione funzionale dei due emisferi. Gli uomini hanno prestazioni migliori non soltanto nelle attività che richiedono una maggiore forza muscolare, ma anche nei compiti che richiedono una precisa localizzazione spaziale, dove è coinvolta l’attività visivo motoria, sono superiori nelle attività di astrazione o nei compiti matematici. Le donne sono più abili a svolgere compiti che richiedono qualità come allevare, accudire, riescono meglio nelle mansioni che richiedono una motricità fine come ricamare o cucire. Sono maggiormente in grado di rispondere alle modificazioni somatiche ed emozionali del volto durante la conversazione, e di rispondere più empaticamente alla gestualità non verbale. Nei tempi in cui la donna si occupava della casa e della crescita dei figli mentre l’uomo cacciava e svolgeva attività più “mascoline”, si sono delineate quelle differenze che sono state tramandate culturalmente da generazione in generazione. Oggi i ruoli sono diversi, sussiste una maggiore intercambiabilità, ma non possiamo dimenticare quello che per così tanto tempo si è stata una definita divisione di compiti, tanto da scolpirsi nelle nostre tradizioni e a far parte del patrimonio genetico. Ci sono quindi abilità specifiche e differenze oggettive tra maschile e femminile, ma quali qualità, quali sfumature stabiliscono il colore della nostra personalità?. Intanto siamo generati da un uomo e da una donna, padre e madre sono un esempio primario indiscutibile di come impariamo a conoscere il maschile ed il femminile, nonché di come si sviluppa l’interazione tra loro, e certo non sono le uniche fonti per il nostro maschile e femminile nel corso di una vita. Alcune esperienze un uomo e una donna non le possono vivere, possono comprenderle solamente con l’immaginazione e l’empatia. Per esempio, l’uomo non potrà mai vivere l’esperienza del ciclo mestruale o della maternità, ma solo se sviluppa vicinanza alla sensibilità, vulnerabilità, fragilità e creatività del femminile in quei particolari momenti, riesce a comprendere e ad afferrare quelle qualità della donna e del suo femminile. Un uomo in questo caso non può sapere cosa significhi vivere quell’esperienza, deve limitarsi ad immaginarlo, e può farlo soltanto perchè la donna esiste. Il modo che ha l’uomo per relazionarsi con la propria parte femminile consiste nel riconoscere in se stesso ciò che immagina essere la consapevolezza della femminilità nella donna. Lo stesso vale per la donna che cerca il suo maschile nel rapporto con l’uomo. Ora, un uomo ed una donna hanno solo la possibilità di cogliere il maschile ed il femminile nell’altro, o questa è una necessità di vitale importanza per tutti e due?. Per capire questo proviamo ad immaginare che cosa accade se in un gruppo di uomini si introduce una donna o se in un gruppo di donne si introduce un uomo. La situazione nel gruppo non rimane uguale a prima, possiamo vedere ad esempio come iniziano a manifestarsi tra i componenti del gruppo relazioni intrise di piacere, sfida, competizione, o atteggiamenti di seduzione.

La situazione che si viene a creare assomiglia a quello che avviene in un laboratorio chimico, quando in un composto viene improvvisamente introdotto un agente, che determina una alterazione dell’equilibrio della sostanza precedentemente stabile. In gruppi di soli uomini, come ad esempio in certe confraternite religiose, capita di vedere manifestazioni di atteggiamenti femminili, soprattutto quando uomini stanno insieme, isolati tra loro per molto tempo. Sul monte Athos, in un piccolo paese della Grecia settentrionale, situato all’estremità orientale di una penisola estesa sul mar Egeo, sono presenti circa venti conventi di monaci. Chi ha la fortuna di poterli incontrare nelle loro passeggiate solitarie, può notare che hanno assunto gesti, modi di parlare, di camminare e di muoversi, che hanno caratteristiche femminili. Sembra quindi che, per colmare la mancanza della presenza delle donne, membri di un gruppo formato completamente da uomini, trovi autonomamente quelle qualità che mancano, e questo si vede chiaramente osservando la gestualità. Colmare questa mancanza e incompletezza sembra essere una necessità presente nella vita. Anche nelle case di cura per anziani accade qualcosa di alchemico se in un gruppo uomini o donne entrano persone dell’altro sesso, lo si vede osservando i giochi e le interazioni quotidiane, capiamo da ciò che questo processo dura tutta una vita. Cosa succede dunque? Quali reazioni chimiche si scatenano nell’incontro tra maschile e femminile? Quali qualità maschili e femminili sono così importanti da essere un bisogno vitale? Se si potesse astrarre una qualità vitale che per definizione rappresenta il maschile, forse dovremmo evidenziare la sua natura aggressiva e auto affermativa, quella natura che guarda sempre avanti, che protende verso. Come aggressività non indichiamo necessariamente la violenza, ma etimologicamente la parola deriva da dal latino ad-gredior che significa andare verso, andare di buon grado, ed è un movimento volto al cambiamento, al raggiungimento di uno scopo, alla realizzazione di un bisogno. Questo movimento maschile è di fondamentale importanza nello scopo della trasmissione della vita, se pensiamo che dei circa trecento milioni di spermatozoi emessi durante una eiaculazione, solo uno raggiunge l’ovulo della donna. La forza, la determinazione e la competitività di quel campione che raggiunge l’ovulo è determinante perchè possa nascere una vita. Ma lo è anche l’azione della donna: accogliere. La donna accoglie quella spinta dell’uomo che viene fermata, ridotta, trasformata, e cambiata. Questa è trasformazione, nell’incontro tra i due l’uomo accede a qualità come dolcezza, sensibilità, abbandono.

La donna accogliendo la forza dell’uomo lascia che lui raggiunga il suo cuore, e, aprendosi, si abbandona a lui. Questo rapporto ideale, diventa un gioco delicato tra dare e prendere nella forma magica dello scambio, le regole richiedono che entrambe i partecipanti siano consapevoli della loro influenza, che si rafforza e si sviluppa in ogni nuovo contatto reciproco. Ci sono moltissimi esempi di questa trasformazione nei racconti e nelle fiabe. Nel racconto delle “mille e una notte” ad esempio, si narra di come un sultano persiano dopo essere stato tradito dalla moglie, decide di uccidere tutte le successive spose con le quali passerà la prima notte di nozze. Sheherazade, moglie del sultano, narra allo sposo con dolcezza femminile una storia ogni giorno, e rimandando il finale al giorno successivo, ha così, salva la vita. Con la delicatezza, modalità suadente e capacità di comprensione amorevole esclusivamente femminile, Sheherazade riesce a fermare il sultano dalla sua terribile promessa di vendetta, facendo appello all’immaginazione dello sposo, riesce a stimolargli uno spazio di contemplazione interiore, che ammorbidisce la dura ferita del suo animo. Il dolore del maschile viene curato nell’incontro con il femminile, avviene così una alchimia. Nello scambio sussiste un dare e un prendere, il pericolo è costituito dalla tendenza alla sopraffazione o all’invasione, quel gioco di potere che a volte sconfina nella necessità della possesione. Ma la rinuncia alla sopraffazione non deve essere una rinuncia alla auto affermazione, perchè nella capacità di ‘affermare se stessi, c’è la partecipazione autentica al rapporto. L’equilibrio si gioca nel tentativo di un individuo di arrivare all’altro: si sente accolto, tende alla sopraffazione, è rifiutato, ma non si ferma, e trova un nuovo livello di partecipazione dove il rischio è sempre quello di sconfinare o essere respinti, se non ci fosse questa dinamica, sarebbe un rapporto privo di vitalità.

Il movimento tra maschile e femminile è attuabile a tutte le relazioni, ed è alla base del principio della vita: dove c’è l’espressione di questo movimento, c’è vita.

Possiamo immaginare maschile e femminile come due polarità, il polo femminile è rappresentato dall’elemento negativo ed il polo maschile da quello positivo, ciò non va inteso nel senso che soltanto il primo sia passivo ed il secondo attivo, ma entrambe si esprimono in modo diverso. Nelle nostre case, la trasmissione di energia elettrica è possibile grazie alla presenza di una polarità negativa e di una positiva. La corrente elettrica passa attraverso due punti stabili, se uno dei due non lo fosse o non avesse una identità precisamente positiva o negativa, non esisterebbe energia. Questa energia può essere in seguito utilizzata in tanti modi: per scaldare, per illuminare, per fare funzionare una macchina ecc., ma la base è data da due poli stabili e opposti.

La forza di queste polarità si manifesta nell’unione di coppia uomo – donna.

Quante volte di fianco a grandi uomini ci sono grandi donne il cui lavoro nascosto e meno evidente ha contribuito, in maniera unica, alla realizzazione di grandi vite: Gandhi, Martin Luther King, Daisaku Ikeda, sono esempi tra moltissimi casi. Quanta energia hanno prodotto coppie simili di uomini e donne! Una tale potenza produce forti impatti sulla realtà, alla stessa maniera in cui l’elettricità è utilizzata dall’uomo per diversi scopi, questa forza prodotta dall’incontro tra maschile e femminile può irradiarsi al di fuori della coppia, ed essere utilizzata per significative trasformazioni nell’ambiente, positive o negative che siano. Il segreto sta nella presenza di stabili identità e precisi ruoli. Come un treno può correre sui binari solo se essi non si incontrano mai e viaggiano parallelamente lungo il percorso, così il rapporto tra uomo e donna è forte e produce forza solo se entrambe riconoscono la presenza del contributo indipendente delle loro qualità.

Una parabola buddista dice: “il potere dell’arco determina la forza con cui vola la freccia, se l’arco è debole, la corda sarà lenta, il femminile è l’arco ed il maschile la freccia così la forza della donna sostiene e guida le azioni dell’uomo.”

Riporto qui ancora antichi testi buddisti che elogiano il rapporto tra uomo e donna: “un profondo legame spirituale tra uomo e donna trascende questa vita e farà si che essi si rincontreranno ancora nelle esistenze successive. Come ogni animale ha il suo ambiente, si nutre e vive felice nel suo luogo vitale: i pesci nell’acqua i volatili in cielo le piante nella terra, così quando un uomo è felice la sua donna si nutre del suo stato vitale ed è soddisfatta. Se un uomo è un ladro anche la sua donna lo diventerà, e questo non riguarda soltanto questa vita. Un uomo e la sua donna sono sempre uniti come un corpo e l’ombra come i fiori ed i frutti come le radici e le foglie in tutte le esistenze. Gli insetti si nutrono degli alberi su cui vivono, e i pesci bevono l’acqua nella quale nuotano.

Se l’erba appassisce, le orchidee soffrono, se i pini sono fiorenti, le querce gioiscono. Persino gli alberi e l’erba sono uniti cosi strettamente. L’uccello chiamato hiyoku ha un corpo e due teste, entrambe le sue bocche nutrono lo stesso corpo. Nello stesso modo uomo e donna nutrono lo stesso corpo mantenendo indipendenza di pensiero e di giudizio.

I pesci hiboku hanno un occhio solo così maschio e femmina restano insieme per tutta la vita. Uomo e donna allo stesso modo hanno in totale due occhi, ossia due punti di vista diversi che armonizzati allargano la visuale di entrambe.

Ci deve essere sempre un rapporto di offerta, un desiderio di portare un contributo per realizzare la felicità di entrambi.
Uomo e donna uniti sono come due candele che con il calore si sciolgono e fondono insieme i loro corpi e uniscono le loro fiamme in una fiamma più grande e viva”.

Anche nella materia, ciò che determina il movimento e la vita in ogni piccola particella molecolare, è la presenza di un nucleo positivo e di elettroni negativi che orbitano intorno, questa tensione genera movimento. Quanto più numerosi sono gli elettroni, tanto più denso e pesante è l’elemento in cui si muovono, la molecola di idrogeno ne contiene uno soltanto, l’uranio ne ha novantadue. Di basilare importanza è lo scambio che avviene tra maschile e femminile, la qualità dell’interazione e le dinamiche dello scambio sono la base per comprendere anche i conflitti di coppia. Nella medicina cinese il chi, energia primordiale connessa con la vitalità e con la vita, è prodotta dalla interazione tra yin e yang, rispettivamente tra il principio femminile e quello maschile.

Naboru Muramoto, spiega come in estremo oriente yin è il nome dato alla forza che produce espansione. L’acqua, gli alberi, i fiori, l’aria ecc. sono tutti elementi in espansione nella natura, la loro tendenza è quella di riempire continuamente le dimensioni dello spazio. Lo yang al contrario, è la forza che esprime la contrazione, rende le cose compatte e pesanti. Ogni elemento in natura continua a contrarsi finchè la forza yang resta dominante, quando essa si esaurisce, l’elemento ritorna ad espandersi, in quanto non c’è più alcuna forza residua, che ne impedisce l’espansione.

L’attività è yang, e la passività è yin, questo principio è ben esemplificato dal calore dell’attività del sole, in opposizione al freddo e alla passività della luna. Il sole, il giorno, il caldo e l’estate sono detti yang, mentre la luna, la notte, il freddo e l’inverno sono detti yin. Frutti succosi yin, come le arance, la papaya, gli avocado, crescono in un clima caldo e torrido yang, la presenza del connubio tra yin e yang è quindi alla base della vita e della trasformazione.

Autostima: stima di ciò che sento

Pubblicato sulla rivista miafarmacia magazine di Febbraio – Marzo 2009.

William James, psicologo e filosofo statunitense (1842 – 1910), noto per aver studiato il comportamento dell’essere umano dal punto di vista empirico, fu tra i primi ad evidenziare come persone con scarse abilità potevano fare risaltare doti di sicurezza incrollabili, mentre altri stimati da tutti e ritenute persone valide, intimamente diffidavano completamente di loro stessi. Sfogliando riviste, cataloghi di libri o DVD, possiamo trovare infinite “ricette” per poter conoscere, potenziare, migliorare le nostre qualità e la nostra autostima, con l’illusione che esista un modo universalmente valido per tutte le tipologie di persone.

Parlando di autostima in realtà tocchiamo un campo che comprende profonde componenti individuali, che ci interessano singolarmente come esseri umani e che non possono essere ridotte a promesse oramai molto diffuse come “diventa un super manager in una settimana”, “tira fuori il dio che c’è in te in un mese” o “impara a ottenere ciò che vuoi in un giorno” ecc. Nel linguaggio comune la stima è genericamente la valutazione che si dà ad una cosa secondo il suo valore. Riportandolo all’essere umano la domanda diventa: “quale valore diamo a noi stessi?”. Si potrebbe allora desumere che se ci valorizziamo la nostra autostima sarà alta, altrimenti sperimenteremo quella che viene chiamata “bassa autostima”. Se tutto si riducesse a questa valutazione, basterebbe trovare quelle qualità di noi alle quali diamo valore e coltivarle quotidianamente per farle emergere nella nostra vita e nelle relazioni con gli altri. Potrà sembrare banale, ma il solo riconoscere le proprie qualità, che comprendono i propri desideri, i propri progetti e i propri bisogni, per alcuni è molto difficile. Può esserci accaduto molte volte, e per molto tempo, per esempio di trovarci in situazioni dove ci hanno mancato di rispetto o siamo stati messi da parte, e ci siamo quindi “abituati” a subire comportamenti abusanti, tanto da non sentire più, talvolta, le nostre ferite ed il nostro disagio. Prendiamo, ad esempio, una situazione interpersonale nella quale non siamo attualmente felici, dove da tanto tempo si protrae un clima di insofferenza che ci vede vittime di frustrazione e impotenza. Forse ci accorgiamo di essere rimasti molto tempo in questa situazione, di esserci abituati a quel disagio o di esserci, in parte, anestetizzati rispetto al nostro normale limite di sopportazione. Possiamo aver sentito di non meritarci altro o di non avere altri desideri, altre possibilità a cui aspirare. Questa dinamica può sussistere in tante aree della nostra vita privata: con il partner, sul lavoro, nelle relazioni amicali, con i figli, in situazioni sociali e di gruppo, ed è in questi momenti che possiamo arrivare a rivolgerci ad uno dei tanti manuali sull’autostima che troviamo in libreria. Mi chiedo come facciamo a stimarci se, nel ruolo frustrante in cui ci troviamo, che si ripete puntuale come un orologio svizzero nella nostra vita e relazioni, facciamo fatica non solo ad uscirne, ma a riconoscere ciò che vorremmo veramente per noi. Se proviamo a chiudere gli occhi per un momento, cercando di ritrovare le immagini di tutte quelle situazioni in cui ci hanno mancato di rispetto, dove non ci hanno capiti o non ci siamo sentiti amati, può essere già molto difficile riuscire a mantenere il contatto con ciò che proviamo. La possibilità di sentire tutta la nostra sofferenza, non tanto come una lamentela, ma come un contatto profondo con una parte di noi che è stata trascurata, è il primo passo per “scongelare” un atteggiamento di insensibilità e di abitudine. A monte di una personalità che manca di autostima può esserci stata un’eccessiva sopportazione, un’eccessiva accondiscendenza, un eccessivo contatto con la sofferenza degli altri rispetto al contatto con i propri bisogni, una mancanza di alternative o diverse opportunità rispetto a relazioni e situazioni potenzialmente frustranti. La sopportazione o l’attenzione sensibile al dolore degli altri è positiva se si tratta di amore, di dedizione all’altro, di consapevole rinuncia in favore di un legame a cui teniamo, ma diversamente può diventare una ripetuta condizione in cui ci mettiamo da parte. Un momento in cui possiamo entrare più in contatto con la nostra autostima è quando ci troviamo davanti ad una decisione. Proviamo a pensare cosa succede quando dobbiamo scegliere tra due cose, per esempio due lavori, due luoghi in cui passare una serata, due persone verso le quali proviamo attrazione, due percorsi diversi. Tutte le volte che abbiamo davanti una scelta da compiere possiamo trovarci di fronte ad un conflitto, dove dobbiamo escludere una cosa rispetto ad un’altra, ed è come se esistessero tutte le alternative, in lotta per affermarsi dentro di noi. Spesso, per poter decidere, ci appoggiamo al consiglio di un amico o sentiamo qualche parere esterno. Il problema non è raccogliere tutte le informazioni per fare la scelta migliore, ma la mancanza di potere nella decisione. Quando cioè affidiamo la nostra scelta a qualcun altro, quando aspettiamo di non nuocere per portare a termine una decisione, per poter agire, per poterci muovere e poterci affermare, quando rimaniamo nel limbo del conflitto per tanto, troppo tempo. L’autostima e la capacità di scegliere sono strettamente collegate tra loro, sono connesse alla possibilità di seguire i nostri desideri ed i nostri bisogni, alla possibilità di potere entrare pienamente in una situazione, entrando in contatto, a volte, con il rischio o con l’ignoto. L’opposto della bassa autostima è l’autoaffermazione: quando affermo me stesso mi manifesto, metto in gioco le mie qualità, posso conoscerle e trasformarle. Nell’uomo esistono due bisogni fondamentali: il bisogno di affetto ed il bisogno di autoaffermazione. Questi due bisogni spesso li viviamo in contrasto: “se mi affermo pienamente, perderò l’affetto; se vivo di affetti non posso auto affermarmi”. Il problema infatti comincia nel momento in cui il bisogno di autoaffermazione porta, come conseguenza, alla rinuncia del bisogno di affetto. Quando ad esempio nell’affermarci rischiamo di rompere certi legami tenuti in piedi da tanto tempo, spesso basati sulla dipendenza. Conviene allora chiederci se si tratta di vero affetto, quell’affetto che non include una nostra autoaffermazione, che non avvalora le nostre qualità o i nostri sogni, che non vede ciò a cui aspiriamo. Nello stimare noi stessi, nel darci valore, nell’ascoltarci nel modo più autentico, (e non nello scimmiottare qualità approvate socialmente solo per riscontrare successo), incontriamo inevitabilmente un rischio: quello di dover lasciare situazioni della nostra vita, di cambiare vecchie abitudini, di ritrovarci per un periodo soli. Nel dedicare tempo alla conoscenza di noi stessi siamo soli, e coltivare l’autostima in modo profondo implica momenti come questi, in cui non necessariamente dobbiamo toglierci dalle relazioni, ma dove l’ascolto di quello che ci accade diventa il punto di riferimento più importante. A volte diventiamo come minatori, per raggiungere le pietre più preziose, dobbiamo imparare a rimanere anche al buio.