Il problema di Facebook e dei Social Network

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.

Con questo articolo mi rivolgo a tutti coloro che hanno frequentato Social Network e sono rimasti delusi vedendo spegnersi, a poco a poco, l’iniziale entusiasmo di fare parte di questa grande rete di relazioni umane. In questa delusione possiamo probabilmente racchiudere la superficialità dei valori degli scambi amicali ed i modi in cui vengono messi in gioco i sentimenti. Riscontro che molte persone dedicano tempo ed entusiasmo a questa realtà virtuale, coltivando incredibili quantità di amici, contatti, possibilità di partner, gruppi, tanto da sentire di avere tralasciato scambi “reali” in contesti “reali”.

Sempre più persone raggiungono il mio studio di psicoterapia in preda ad una grande confusione dovuta, oggi, non all’uso di una droga conosciuta nel contesto classico delle dipendenze, ma spesso, causata dalla frequentazione di Social Network. Lo sballo di questa “sostanza”non è più identificabile biologicamente attraverso oppiacei che raggiungono recettori sinaptici o altro, ma da un’attivazione diretta del sistema limbico che avviene tramite immagini, video, messaggi, parole ad effetto, che vanno immediatamente ad agire nelle “aree cerebrali del bisogno”.

Qualche tempo fa decisi di iscrivermi a Facebook attratto dall’idea di poter contattare qualche vecchio amico. Il tempo effettivo necessario per l’iscrizione e per apprendere qualche nozione base fu di almeno un’ora; decisi quindi di telefonare ad un amico e di impiegare quel tempo per vedere fisicamente una persona a me cara. Cosa ha differenziato il nostro incontro da un incontro virtuale? Davanti ad una persona passano una quantità infinita di informazioni che non possono essere trasmesse attraverso una connessione di rete. I recenti studi sui neuroni specchio rivelano che coordinate spaziali intorno al corpo, e quindi il rapporto con gli oggetti e le persone che ci circondano, coinvolgono le parti fondamentali del nostro sistema nervoso. In altre parole, la comunicazione più importante e, soprattutto, le informazioni più importanti passano attraverso il contatto fisico e non verbale. La vicinanza prossemica, gli odori, la stimolazione galvanica del contatto con la pelle, l’impatto energetico e l’influsso della presenza, sono elementi della relazione che vengono assimilati ed elaborati inconsciamente molto più delle parole.

Novanta milioni di persone tra i quali il 30 per cento degli italiani, soprattutto giovani tra i 25 e i 34 anni, usano uno strumento come Facebook o altre realtà di Internet Community. Cosa li spinge a ciò? Una parola risponde, almeno in parte, a questa domanda: bisogno. Bisogno di affetto, di appartenenza, di apparenza, di marketing, di amore, di rapporti occasionali e chi più ha idee più ne aggiunga. Si tratta comunque di bisogni che non trovando soddisfazione nel campo reale si rivolgono a quello virtuale e non ci sarebbe niente di male in questo, se ne fossimo consapevoli.

Delle domande che potremmo porre a noi stessi mentre stiamo scrivendo qualche messaggio ad effetto, mentre stiamo caricando una nostra particolare foto o filmato, mentre il nostro cuore si accende all’idea di vedere se qualcuno ci ha scritto su Facebook, sono: “quale bisogno c’è dietro? Cosa sto cercando qui? Dove non riesco nella realtà?”. Mi rendo conto che queste domande possono assomigliare a tecniche di decondizionamento cognitivo comportamentale che solitamente vengono utilizzate per frenare un atto compulsivo, una dipendenza, un istinto automatico, ma se dobbiamo darle un nome, diamole quello giusto: di una dipendenza a volte si tratta. Calcolando il tempo passato davanti a Facebook o a qualsiasi altro Social Network, spesso parliamo di ore che nell’arco di un anno sono settimane intere. Si tratta di un tempo dedicato ad una vera e propria altra realtà. Il problema non è costituto dal soddisfare un bisogno, che è qualcosa di vitale importanza per l’essere umano, ma lo diventa quando questa necessità si trasforma in una dipendenza che ci separa da una nostro esserci pienamente e manifestarci nella realtà.

Riguardo all’amicizia, mi viene da pensare ai compagni di scuola o a quelle persone particolari con le quali abbiamo condiviso le esperienze più belle ed importanti, amici che ci hanno accompagnato e ci sono stati vicini nei momenti più significativi della nostra vita. Può essere interessante fare un paragone tra queste persone così importanti, che si possono forse contare sulle dita di una mano ed i quattrocento o cinquecento contatti, chiamati “amici”, raggruppati in ogni profilo di Facebook. A mio parere, alcuni valori non sono flessibili a mode o a tendenze, pertanto non ritengo possibile definire ex novo “amicizia” o “amore” attraverso questo nuovo veloce modo di favorire incontri. Credo che da questo nasca la maggior parte della confusione che vedo ogni giorno: si coltivano molteplici contatti di amicizia ma ci si sente soli, si manifesta amore in ripetuti rapporti occasionali o pratiche di sesso virtuale e non ci si sente mai amati.

Per non parlare dell’impatto emotivo che può avere la possibilità di rifiutare un’amicizia o ancora peggio ignorarla con un semplice click, o quanto può essere potente e compromettente vedere sparire persone dalla propria vita in un attimo, sostituite con disinvoltura l’istante dopo; questo si verifica quotidianamente nei Social Network.

Le Community sono inoltre una panacea di confessioni ed esibizioni personali, non si risparmiano le più inaspettate intimità, in parallelo al crescente interesse sociale per i Reality e a tutte quelle forme di esserci per gli altri “senza censure”. In questa apparente disponibilità, apertura, generosità di realtà personali in cambio forse di un po’ di capacità di stupire o di visibilità, si perde l’unicità del rapporto, la sacralità della confessione e la segretezza della confidenza; in altre parole si perde ciò che trasforma le relazioni superficiali in relazioni speciali. Riconoscersi in uno sguardo, trovare conferma in un contatto, essere contenuti con uno scambio fisico, viene sostituito da una conferma virtuale, e come ogni cosa non vera, si scinde dalla realtà, perdendo la sua esistenza concreta. Allora possiamo chiederci in quale realtà vanno tutte queste parti intime di noi, e soprattutto a chi vanno! Cosa succede quando ci eccitiamo, piangiamo, ridiamo, ci soddisfiamo e diamo tutto noi stessi davanti ad uno schermo? A chi vengono indirizzati tutti quei sentimenti espressi ed inviati in messaggi, e-mail video o foto? Dove si disperdono?

Rollo May in Amore e volontà (1970) espone una visione molto chiara dell’individuo della società di allora, gli attribuisce un bisogno di emozioni forti per abbattere un muro di abitudini e d’insensibilità. Oggi, a mio parere, pur essendoci questa necessità, si delinea un altro problema: la scissione e la frammentazione dei vissuti. Non è difficile vivere più realtà contemporaneamente e dividersi in più contesti: amante virtuale e moglie reale, amicizie virtuali e amicizie reali, sesso virtuale e sesso reale, identità virtuale e identità reale.

Facebook, Myspace, Linked in ed altri Social Network offrono la possibilità di soddisfare immediatamente il bisogno dell’uomo di comunicare, manifestarsi, confrontarsi e completarsi attraverso gli altri; io ritengo che il problema non sia tanto l’avere questi bisogni, ma piuttosto come essi vengono soddisfatti. Lascio aperta dunque una riflessione sulla modalità di esserci con gli altri attraverso delle realtà virtuali e sul pericolo che esse possano diventare una dipendenza, senza le quali si aprirebbe inevitabilmente il confronto con la propria solitudine.

Famiglia karma e spiritualità

Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.

L’uomo, in quanto essere sociale, conosce e riconosce se stesso, la sua o le sue identità, nelle relazioni con gli altri. Il bambino, che nella parte iniziale della sua vita non avverte una separazione netta tra lui e chi si occupa di lui, impara a manifestare se stesso nell’interazione. Se sua madre o la persona che si occupa di lui gli sorride, egli non solo reagisce con un sorriso, ma diventa quel sorriso stesso, diventa quella fonte di gioia e felicità; nello stesso modo se riceve un’espressione di dolore o di rabbia, la sua identità si specchia e si riconosce in quell’emozione. Quando siamo molto piccoli non riusciamo a distinguere se chi si occupa di noi prova dolore perché ce l’ha con noi oppure sta provando qualche cosa in conseguenza ad un evento della sua giornata o per sue motivazioni personali; siamo solo recettivi a quello che avviene nella relazione in un momento così delicato della nostra vita, ciò diventa sempre e comunque parte di noi.

Può apparire ridondante parlare dei bambini, fino a quando non ci accorgiamo che certe dinamiche avvengono nello stesso modo, in tempo reale, nella nostra quotidianità. Quante volte reazioni negative o scontrose di persone che incontriamo cambiano i nostri umori o trasformano le nostre giornate, tirano fuori le parti peggiori di noi oltre la capacità di controllo; a volte assorbiamo questo in modo ricettivo proprio come un bambino reagisce a quei sorrisi o quegli sguardi di dolore. Tali cambiamenti di umore si manifestano così improvvisamente e automaticamente da lasciarci stupiti davanti alle nostre reazioni. Ci domandiamo il motivo per cui certe persone sono così abili e potenti nel farci reagire in modo così impulsivo e negativo davanti alle loro richieste, pressioni e giudizi; cerchiamo di capire il perché certi accadimenti non riusciamo a farli scivolare via e rimangono sotto forma di martellanti pensieri o fastidiose sensazioni, impedendo il normale e sereno svolgimento delle nostre attività quotidiane.

Molte volte per noi reagire è normale, qualunque persona al posto nostro si comporterebbe nello stesso modo, altre volte certe relazioni ci feriscono nell’anima, nel profondo, lasciano un segno più forte. Diventa difficile dimenticare tutto senza avvertire un “rumore di fondo” che rimane fastidioso.

Un esame più attento ci può far riflettere sul fatto che tante situazioni si ripetono, molte relazioni che ci fanno soffrire si manifestano sempre nello stesso modo o con le stesse dinamiche. L’incontro con alcune persone nella nostra esistenza sembra essere un teatro, dove ritornano le medesime scene, come se avessimo continuamente l’occasione di rivedere, mentre lo recitiamo, un copione difficile da mutare.

Se è vero che dalla nascita un bambino è pronto ad assorbire come una spugna i condizionamenti che l’ambiente gli fornisce e a riconoscere e reagire a quei sorrisi o a quegli sguardi di dolore, quando crescerà attiverà automaticamente qualcosa dentro di lui rapportandosi a tali sorrisi o sguardi, parti interne impareranno automaticamente a reagire a tali condizionamenti come bottoni, pronti ad essere spinti e a dare vita alle medesime emozioni del passato. Condizionamenti iniziali mettono i semi che rimangono nell’inconscio e sono pronti ad emergere ogni qualvolta un particolare evento esterno darà vita ad una relativa emozione, ogni qualvolta si metterà in scena la ripetizione di un copione, di una medesima dinamica.

Per questo motivo certe relazioni possono fare male a qualcuno e possono non fare male a qualcun altro, come se qualche cosa di interno ad ognuno di noi si attivasse in modo differente a seconda dei personali vissuti e delle intime esperienze. Come una cartina tornasole cambia colore solo se macchiata con determinate sostanze, o come un agente chimico, che a seconda della sua natura e della qualità dell’interazione può sviluppare più o meno energia, legami più o meno forti.

Stando così le cose, buona parte della responsabilità di cambiare quel copione di teatro e di come poter agire su quei condizionamenti dipende da noi, dal nostro temperamento, dalla nostra capacità di non sottometterci, di rafforzarci e di metterci in gioco.

Rimane però una domanda che spesso scoraggia ogni nostro tentativo di cambiamento e ogni nostro sforzo e che molte volte porta ad un atteggiamento di rassegnazione più che di accettazione. Questo spesso accade quando ci chiediamo il perché siamo nati in un determinato ambiente e non in un altro, perché tanti sguardi di dolore e pochi sorrisi, perché abbiamo ricevuto condizionamenti negativi rispetto a chi è stato più fortunato di noi. Possiamo chiederci perché non ci è dato di scegliere l’ambiente in cui cresciamo, di sapere chi dalla nascita si occuperà di noi, chi ci darà gioia, incoraggiamento o freddezza e repressione, gettando i semi nelle nostre esperienze e determinando il nostro carattere.

Se per un istante chiudiamo gli occhi e immaginiamo la nostra casa di infanzia, la nostra famiglia, l’atmosfera dell’ambiente nel quale siamo cresciuti, gli odori ed il sapore delle esperienze che hanno caratterizzato quei luoghi e quelle stanze, possiamo per un momento entrare in contatto con i condizionamenti ed i semi di cui parlavamo prima.

Quando siamo pronti per fare un altro passo possiamo visualizzare le interazioni tra le persone della nostra famiglia, in particolare le relazioni che sono state più sofferenti; possiamo individuare una persona della nostra famiglia che ha sofferto di più, con la quale siamo entrati in risonanza ed abbiamo condiviso, anche se non direttamente, il suo stato d’animo. Spesso quando ci soffermiamo a sentire questo possiamo avvertire fastidio, un po’ come se toccassimo un nervo scoperto di noi, come se fossimo masochisticamente proiettati dentro una sensazione che non vogliamo provare o che addirittura evitiamo.

La stessa emozione fastidiosa è presente nella nostra vita ogni qualvolta ci relazioniamo con quella persona della nostra famiglia, o con chiunque sia in grado di entrare intimamente in contatto con quella particolare parte di noi. Sentiamo spesso affermazioni del tipo: “Sei come mia madre!”, “con tutta quella irruenza mi ricordi mio padre!”, “quando mio padre o mia madre fanno così non li sopporto!”…”I miei genitori sono in grado di farmi arrabbiare come nessun altro!”. I genitori possono averci dato tante cose importanti e fondamentali, ma non è questo l’argomento su cui ci focalizziamo ora, in quanto ciò che ci rende felici non porta desiderio di cambiamento; la nostra attenzione va invece verso quei comportamenti che ci hanno reso sensibili e che ci riportano in contatto con le nostre ferite. Il nostro scopo è comprendere come si attivano così automaticamente certe reazioni dentro di noi.

Nel tentativo di rispondere al perché nasciamo in un determinato ambiente e siamo soggetti a determinati destini, condizionamenti, o eventi così forti da cambiare la nostra esistenza, può essere importante conoscere la teoria del karma nell’insegnamento buddista. Nel buddismo viene chiamato karma (letteralmente: azione) il meccanismo nascosto, la legge immanente che regola lo scorrere dell’universo. Con la parola karma viene indicata qualsiasi azione mentale, verbale o fisica, di qualsiasi essere vivente, che produce un effetto corrispondente.

Il buddismo nasce per poter risolvere il problema della sofferenza nell’essere umano e secondo questa religione, ogni sofferenza è legata al karma di ognuno di noi, cioè a tutte quelle azioni presenti o passate che possono essere suddivise in “cause karmiche”, sotto il profilo delle singole azioni; “tendenze karmiche”, quando un certo tipo di azione ripetuta costantemente produce una predisposizione verso un certo tipo di comportamento; “relazioni karmiche”, nelle interazioni con altri individui e con l’ambiente in cui viviamo.

Ogni volta che ripensiamo quindi al motivo per cui siamo nati in un determinato ambiente, abbiamo ricevuto determinati condizionamenti o siamo stati soggetti ad un determinato destino, possiamo pensare ad una nostra “responsabilità karmica”, cioè a quel numero infinito di azioni compiute da noi da un incalcolabile tempo passato verso un infinito futuro. Ed è come se attualmente ci trovassimo nel mezzo, ovvero sia nel “qui ed ora” influenzato da tali cause; diventa quindi nostra la responsabilità di ciò che accade e di come possiamo cambiare l’evolversi degli eventi. Se quello che ci succede nel presente è un effetto conseguente di cause che abbiamo messo nel passato, la ferita di cui parlavamo prima, quel nervo scoperto inflitto dall’ambiente, che ci porta istintivamente a scostarcene o a pensare di non esserne responsabili, acquisisce invece un enorme significato nell’ottica del cambiamento. Diventa quindi estremamente importante conoscere tali ferite per poter trasformare il nostro karma e gli eventi della vita che si ripetono.

La sofferenza che ritroviamo nei nostri genitori, a pensarci bene, presente anche nei nostri nonni e bisnonni, e per finire, in noi stessi, passata come il testimone di una staffetta di generazione in generazione, diventa l’oggetto di attenzione più importante per trasformare il karma, per cambiare quelle azioni che si ripetono in modi diversi, ma con lo stesso risultato, da tanti anni.

In un antico testo buddista viene scritto: “…Per prima cosa, alla domanda di dove si trovino l’inferno e il Budda, alcuni sutra affermano che l’inferno si trova sotto terra, altri che il Budda risiede a occidente. Ma ad un attento esame risulta che entrambi esistono nel nostro corpo alto cinque piedi; la ragione per cui penso così è che l’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre. È come il seme del loto che contiene al tempo stesso il fiore e il frutto.Anche il Budda esiste nei nostri cuori, così come dentro la pietra focaia esiste il fuoco e dentro la gemma esiste il valore. Noi comuni mortali non possiamo vedere le nostre ciglia che sono vicine né il cielo che è lontano. Ugualmente non sappiamo che il Budda esiste nel nostro cuore…”.

Soffermandoci sulla frase, “l’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre”, risulta chiaro da questo insegnamento che per trasformare le nostre sofferenze è importante occuparci di ciò che nella vita ha fatto e fa soffrire i nostri genitori, come se fosse per noi uno specchio importante per comprendere le nostre.

Molte volte ci stacchiamo dalla famiglia, cerchiamo di allontanarci da un ambiente familiare negativo cambiando casa, città, continente, con un atteggiamento giudicante verso i nostri genitori, con una profonda insoddisfazione per ciò che hanno dato o trasmesso. Questo atteggiamento, nella maggior parte dei casi, non risolve le mancanze; anzi come se ce le portassimo inevitabilmente dentro dovunque andiamo, può accadere paradossalmente che nel tempo, finiamo per assomigliare ai nostri genitori riproducendo quel comportamento e quegli errori che tanto ci hanno fatto stare male.

Il nostro tentativo di essere liberi manifestando la nostra indipendenza molte volte fallisce. Esiste una regola molto importante: ciò che accogliamo nel nostro cuore ci rende liberi, ciò che rifiutiamo e disprezziamo ci rende prigionieri; la prigione è rappresentata proprio da quella nostra inevitabile e automatica reazione negativa.

A volte possiamo pensare di risolvere questo problema nella maniera contraria, rimanendo vicini ai nostri genitori, alloggiando nella stessa abitazione o in case vicine fino a tarda età, occupandoci di loro sempre e rispondendo a tutte le loro esigenze. Possiamo essere sensibili a ciò che procura loro sofferenza come un confessore, una balia, un amico o come un loro genitore. In questo atteggiamento di salvatore dove dedichiamo apertura e sensibilità alla “povera” esistenza dei familiari, frena irrimediabilmente la singola emancipazione oltre a fomentare una forte dipendenza da entrambe le parti.

Possiamo riflettere sull’atteggiamento giusto, resta comunque certo che per cambiare il nostro karma e per risolvere ciò che nella nostra vita si ripete, la relazione con i nostri genitori è un’importante argomento del quale ci dobbiamo occupare, del quale dobbiamo avere cura.

La mia attenzione ritorna perciò all’importante e veritiera frase: “l’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre”, frase che appare contraddittoria se ci documentiamo sulla vita dell’autore di questo splendido scritto, il monaco Nichiren Daishonin, che si allontanò dalla famiglia di origine all’età di dodici anni per intraprendere vita monastica e passando poi gran parte della propria esistenza lontano dai suoi cari, trasgredendo ai comuni “doveri filiali”. Un attento sguardo alle vite dei più importanti maestri e fondatori di insegnamenti religiosi, come Shakyamuni (Budda), Gesù, Maometto e altri, ci ragguaglia sul fatto che anche tutti questi uomini hanno lasciato la loro famiglia di origine per dedicarsi alla spiritualità ed alla ricerca. Nella loro strada verso la felicità hanno mantenuto una certa distanza dalla loro famiglia, ma non possiamo affermare che non si siano occupati “da lontano” di quella che si può chiamare sofferenza dei loro familiari, quindi origine del loro karma. Questo viene dimostrato dal fatto che i genitori di questi grandi uomini, che hanno dedicato una intera vita alla ricerca o all’insegnamento religioso, hanno aderito in tarda età al percorso dei figli, convertendosi o avvicinandosi ai loro insegnamenti con gioia e devozione.

Come se nella realizzazione personale essi avessero gettato profondi semi di luce nella catena delle sofferenze karmiche delle passate generazioni, donando indirettamente felicità e gioia ai loro genitori ed ai loro familiari. Possiamo dire che il legame tra genitori e figli è così forte, che la realizzazione e la felicità di una parte influenza anche indirettamente, la felicità e la realizzazione dell’altra. Un percorso di realizzazione che rimane interno ad ognuno di noi, lavorando con quelle sofferenze nella palestra dei legami e delle relazioni nella nostra vita quotidiana. Possiamo dire che la tali nodi si sono formati nella relazione e si risolvono nella relazione.

Alla luce di queste riflessioni, consideriamo inadatto sia un atteggiamento di accudimento oblativo verso i nostri genitori, sia un allontanamento drastico dal legame, essendo necessario prenderci cura ed elaborare quello che è successo proprio in tale legame. Possiamo cercare di raggiungere, nella costante attenzione e cura dei nostri vissuti, una relazione con il dolore familiare più leggera, distaccata e rilassata; questo è possibile solamente se riusciamo a includere tale sofferenza nel nostro cuore con il dovuto rispetto.

“Non disprezzare il proprio padre e curarsi della propria madre”, diventa quell’atteggiamento di cura e amore, dentro di noi, verso le origini di quelle sofferenze, presenti nella nostra famiglia, nelle nostre generazioni e negli ambienti in cui siamo nati e vissuti.

Un percorso spirituale può favorire la realizzazione di questo cambiamento interiore, per noi e per i nostri cari, ma vorrei dedicare qualche parola all’importanza dell’atteggiamento con il quale ci relazioniamo alla spiritualità.

Molte volte ci rivolgiamo ad una entità spirituale, sia essa Dio, Budda o Allah, come se fosse un essere umano a noi pari: lo chiamiamo, lo supplichiamo, lo trattiamo come un amico, e quando non ci vanno bene le cose che accadono siamo anche capaci di imprecare contro di lui, di bestemmiarlo o calunniarlo. Nella spiritualità si usa il termine “elevare” per indicare l’atto che ci mette in contatto con una nostra parte più pura, più alta; quando diciamo di “elevarci”, intendiamo lo spostarci verso un altro livello rispetto alla normalità, sia esso mentale, fisico o emotivo.

Se il livello spirituale è diverso dal livello normale con il quale ci relazioniamo agli altri, allora trattare Dio o il nostro oggetto di culto come un nostro pari, sottende il fatto di pensare di essere come lui o migliore di lui, di sapere a volte più di lui come dovrebbero andare le cose, quindi cosa è giusto o sbagliato. La superiorità o l’arroganza spesso non ci permettono di incontrare la spiritualità.

Al contrario, molte volte ci rivolgiamo alla spiritualità o ad una dottrina religiosa con remissività, come se ci fosse all’esterno di noi una risoluzione magica dei nostri problemi: dall’alto vengono le capacità di essere capiti e assistiti, in modo che le cose vadano bene. Il conflitto nasce quando nonostante le preghiere, nonostante i numerosi atti di fede e i nostri sforzi, non solo le cose non vanno come noi vogliamo, ma può succedere di continuare ancora a soffrire senza trovare pace. Addirittura la sofferenza aumenta proprio durante la preghiera, quando apriamo i nostri sensi ed il nostro cuore, ed emerge con maggiore chiarezza quello che stiamo vivendo. Allora la rabbia verso l’oggetto di culto o verso il nostro Dio aumenta, ce l’abbiamo anche con tutte quelle persone che ci spingono ad ulteriori atti di fede, perché non vediamo realizzarsi un desiderio o non si persegue un obiettivo.
Non assomiglia forse questo atteggiamento capriccioso e bisognoso a quello di un figlio verso le mancanze dei propri genitori? Si può pensare che l’atteggiamento con il quale ci mettiamo davanti alla spiritualità sia a volte la riproduzione di una dinamica relazionale della nostra vita; riappare la medesima sofferenza sottesa in quelle relazioni che non abbiamo risolto, partendo da quelle con i genitori.

Si ripete molte volte la lamentela, l’affidamento cieco o la pretenziosa realizzazione di una felicità immediata, la richiesta ansiosa ad un oggetto di culto o ad un nostro Dio di una risposta veloce alle nostre sofferenze.

E così facendo evitiamo di essere attenti alla cosa più importante che emerge: la sofferenza stessa.

In quella sofferenza non ci siamo forse noi? Non c’è forse una nostra energia, la nostra storia, un parte di noi che forse non è mai stata ascoltata ed accolta?

Il contatto con la spiritualità è un atto sacro, un rituale di accoglienza e di vicinanza a tutte quelle parti di noi e alla vita stessa.

Attraverso il contatto stesso con la spiritualità possiamo trovare la forza per “prendere per mano” con unicità tutto ciò che esiste e si manifesta, per diventare così genitori di noi stessi.

Se nel qui ed ora sono presenti tutte le “cause” passate e future, quello che accade nel qui ed ora dovrà essere il nostro principale oggetto di attenzione, la “culla” in cui prenderci cura ed entrare in contatto con noi stessi attraverso la spiritualità.