Sutra del Loto e Psicosintesi: i molti aspetti dentro di noi
Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.
Il Sutra del Loto può immediatamente apparire come una prodiga favola. Non è casuale che sia usata una narrazione al confine tra l’immaginifico ed il reale per trasmettere uno dei più preziosi insegnamenti del buddismo. In molte religioni si trova questo metodo di diffusione dottrinale tra maestro e discepolo. Un esempio è il poema Bhagavad Gita, scritto in sanscrito e considerato il testo principale dell’induismo, oppure gli insegnamenti dei Chassidim. Questa mistica corrente dell’ebraismo si è servita sin dal passato di storie dai profondi contenuti per introdurre alla verità. Nelle tradizioni spirituali di molti popoli, così come nella psicoterapia e in molte pratiche di guarigione, le storie diventano “storie che curano”, sono efficaci mezzi di trasformazione in grado di attivare l’immaginazione e di arrivare direttamente al cuore delle persone. La narrazione ha il potere di trascinarci fuori dal tempo e dallo spazio e di introdurci con delicatezza nel regno dell’inconscio e dell’anima.
I processi interiori prendono vita attraverso le immagini e le azioni dei personaggi del racconto. Non sono rispettate le stesse regole del reale, tanto meno vengono rivelati esplicitamente particolari dogmi o insegnamenti, ma gli stimoli della storia raggiungono direttamente le emozioni del lettore permettendo il verificarsi di significativi cambiamenti. La narrazione diventa uno spazio dove, attraverso l’immaginazione, desideri e pulsioni interiori trovano una via per incarnarsi ed essere agiti. Nelle favole, scrive Vygotskij, la produzione fantastica procede direttamente dalla realtà e agisce sulla realtà stessa in quanto suggerisce le esperienze necessarie per l’evoluzione ed il superamento delle più dure prove. Betthleim afferma che le storie fantastiche sono un forte propulsore psichico che agisce in maniera differente, diverso da persona a persona e diverso in momenti differenti di vita.
Pertanto possiamo sin da subito prendere in considerazione gli eventi del Sutra del Loto come una descrizione metaforica di qualcosa che ha luogo all’interno della psiche più che nella realtà stessa. Infatti sin dai primi versi si entra immediatamente in una dimensione che reale non è, ma esprime tuttavia un’immagine simbolica molto suggestiva.
Così inizia: “Una volta il Budda si trovava sul monte Gridhakuta nei pressi di Rajagriha. Era accompagnato da una moltitudine di dodicimila eccellenti monaci, tutti arhat che avevano già sradicato ogni illusione e non avevano più alcun desiderio terreno…”.
La visione di tutte le persone radunate sul monte per ricevere l’insegnamento può essere accostata all’immagine della nostra psiche dove molte parti di noi sono in attesa di una saggia guida, un giusto ordine ed un corretto riconoscimento. Nel sutra avviene proprio questo: ad ogni partecipante viene attribuito un destino ed una funzione particolare. Simbolicamente immaginiamo questa grande assemblea come il vasto pubblico di personaggi che siedono al cospetto del grande occhio della coscienza desiderosi di riconoscimento e conduzione.
Questa metafora è suggestiva per due motivi: il fatto di poter prendere in considerazione la presenza di una molteplicità dentro di noi e la necessità di dirigere tale numerosità e varietà di parti attraverso una coscienza centrale, saggia e direttiva. Roberto Assagioli, fondatore della Psicosintesi, affermava che una delle maggiori cecità e illusioni dell’essere umano è credere di essere “tutti di un pezzo”; è limitativo e fuorviante cercare di dare un’unica definizione di noi stessi vedendoci attraverso una singolare personalità definita e stabile. Di comune uso tra di noi è l’affermazione convinta: “io sono cosi!”, oppure “io non riuscirò mai ad essere diverso da così!”. La realtà interna è fatta di molteplici parti in continuo movimento ed in costante interazione tra loro; definirci monotematicamente diventa il più delle volte una difesa dal rischio di entrare in contatto con le nostre ambivalenze, conflitti e contraddizioni.
Avvicinandoci alla conoscenza del nostro mondo interno siamo chiamati in causa a partecipare, nella vita quotidiana, come nella grande assemblea descritta nel Sutra del Loto, al difficile impegno di dare il benvenuto dentro di noi a tutte quelle manifestazioni che si alternano continuamente. Tutti i giorni infatti intervalliamo continuamente reazioni e stati d’animo. Il nostro intento principale è quello di riconoscere queste parti in continuo mutamento che appartengono alle molteplicità del nostro ambiente interno trasformandole (o illuminandole) in accordo con il nostro progetto evolutivo.
Un modo di relazionarci ad esse è quello per esempio di dialogare, a volte ironicamente, domandandoci ad esempio:”chi è presente oggi? Con chi ho a che fare? In quanti siamo?”. Ricordo le mie supervisioni con Antonio Tallerini nelle quali ogni volta che entravo in studio mi domandava: “in quanti siete? Chi mi è venuto a trovare oggi?”. La modalità ironica già ci distanzia dall’invadenza potente e a volte sopraffacente. A volte dico a me stesso: “Ci risiamo!, di nuovo è arrivata quella sensazione di fastidio che mi indica che sono stato sopraffatto dagli eventi, ora do a lei il benvenuto ed inizio ad averci a che fare…”. Molte volte nel dialogo terapeutico si procede nello stesso modo per riconoscere e ad affrontare senza tragicità sensazioni di ansia, paura, rabbia, oppure per prendere coscienza di ruoli e dinamiche oramai automatiche. Se ci pensiamo, certe evoluzioni della sofferenza si ripetono e sono sempre le stesse, allora dovremmo davvero iniziare a salutarle come si fa con un ospite indesiderato e avviare un dialogo amico, dopo tanto tempo, che esorcizzi il loro essere padrone in terra straniera.
Quando decidiamo di conoscere e trasformare noi stessi non desideriamo forse raggiungere nella quotidianità, al pari di Shakyamuni nella grande assemblea, un posto sul trono del regno interiore diventando re dei vari personaggi psichici che ci popolano dentro?
Le mete della pratica buddista così come dell’approccio terapeutico sono quelli di sviluppare luce di comprensione verso tutte quelle parti che attendono di essere dirette e trasformate. Quando riusciamo distanziarci dai contenuti dell’inconscio, ci disidentifichiamo da essi e prendiamo metaforicamente posto nel “trono della grande assemblea”. In quel momento assumiamo le qualità rivestite da Shakyamuni di presenza, stabilità e capacità di dirigere. Assagioli scrive nell’Atto di Volontà: ” Noi siamo dominati da tutto ciò in cui il nostro io si identifica. Possiamo dominare, dirigere ed utilizzare ciò da cui ci disidentifichiamo.”. La dottrina della vacuità è una delle dottrine fondamentali del buddismo così è scritto nel Sutra Mahaprajna paramita nel dialogo tra Shakyamuni e Sariputra:
«”Pertanto, o Sariputra, dal punto di vista della vacuità non c’è materia, né sensazione, né concezione, né impulso vitale, né coscienza… non forme, suoni, odori, gusti… non c’è conoscenza, né ignoranza”…». Se consideriamo l’Io, o colui che fa l’esperienza, dal punto di vista della vacuità, esso è vuoto, privo di contenuti e privo di identificazioni. Ma la domanda è: “Può l’Io rimanere privo di identificazioni?”. Possiamo in quanto esseri umani pieni di desideri e bisogni perseguire l’intenzione di non identificarci in nulla o privarci di ogni sorta di contenuto della coscienza? Probabilmente l’Io privo di identificazioni morirebbe o sarebbe spogliato di eros, di vitalità e di gioia di vivere. Non usufruirebbe di qualità che trova proprio in ciò in cui si identifica.
Nella meditazione secondo la mia esperienza non si tratta quindi di privare l’Io di contenuti ma di riempirlo, o meglio riconnetterlo, con il suo contenuto originario, la matrice da cui è venuto e quindi la sua vera natura. Questa unione in Psicosintesi viene chiamata connessione Io – Sé.
Nella quotidianità siamo costretti ad identificarci, il nostro Io è invitato continuamente a “riempirsi” di esperienze: ci identifichiamo ad esempio nella semplice azione di mangiare in colui che mastica, beve e ingerisce cibo, nei più complessi ruoli lavorativi, nelle responsabilità familiari, nelle passioni sentimentali o nei piaceri sessuali. Tutto ciò non lo possiamo evitare.
L’identificazione non è negativa di per se ma lo diventa quando si discosta dalla nostra natura, dal nostro progetto evolutivo, dalla possibilità di espressione di noi stessi.
L’atto di disidentificarci si rende una scelta consapevole, un diritto per toglierci da quello che non ci appartiene e impedisce una piena espressione di noi stessi, così l’identificazione diventa una scelta di cambiamento, una consapevole direzione verso aspetti che ci rappresentano e ci permettono di emergere con pienezza. Anche Siddharta non sarebbe stato felice se fosse rimasto nel palazzo reale insieme alla sua famiglia, probabilmente si sarebbe completamente identificato negli affari politici, economici e militari di corte, oltre ad essere forse un buon padre con suo figlio Rahula. Ma sicuramente non sarebbe stato felice e non si sarebbe realizzato. Allo stesso modo quando si illuminò sotto l’albero di Pippal decise di non rimanere insieme gli asceti identificato in un radioso eremita o di restare immobile come un’antenna energetica o una radice dell’albero del risveglio, ma si sentì spinto a condividere con gli uomini ciò che aveva compreso. Portò il suo insegnamento tra la gente comune attraverso una faticosa opera di propagazione. Solo in quest’ultima identificazione realizzò il suo scopo e raggiunse una piena felicità.
Capita usualmente dopo aver cominciato un percorso terapeutico o dopo aver sperimentato una disciplina di pratica buddista di riconoscere più chiaramente alcuni limiti personali prendendo coscienza di essere stati per molto tempo in situazioni che causavano sofferenza. Fermi nell’abitudine siamo a volte come chi lavora nelle latrine e non sente più l’odore dell’ambiente maleodorante. Solo attraverso strumenti che ci favoriscono una percezione diversa è possibile distaccarci per un momento dalla sofferenza e osservare le cose con più distanza. Questo è efficace per sentire nuovamente viva l’intolleranza all’abitudinario stile di vita e la necessità di spostarci in una direzione nuova, tutte sensazioni che si erano sopite. Spesso l’espressione più comune è : “Ma dove sono stato fino ad ora? Mi sembra di avere dormito! Come se non avessi vissuto veramente per tutto questo tempo!”.
Concludo con uno stimolo che viene dai versi del poeta mistico Rumi. Egli scrive in un passo molto profondo di “Conversazioni a tavola” :
“Il maestro disse che un’unica cosa al mondo non va dimenticata. Se anche dimenticaste tutto quanto, ma non questa, non c’è motivo di preoccupazione. Ma se ricordaste, eseguiste e portaste a compimento tutto il resto, dimenticando questa cosa sola, non avreste fatto assolutamente niente. È come se un re vi avesse inviato in un paese straniero con un compito preciso. Andate, vi occupate di centinaia di altre cose ma se tralasciate il compito per cui siete stati mandati, è come se non aveste fatto niente.
L’uomo è venuto in questo mondo con un preciso compito, e questo è il suo scopo. Se non lo esegue, non ha fatto niente.”
Secondo i più grandi maestri spirituali il principale scopo dell’essere umano è quello di ricongiungersi alla sua natura illuminata. I più importanti modelli psicoterapeutici concordano all’unisono sulla necessità di aiutare l’essere umano a conoscere se stesso attraverso principi di sintesi ed armonizzazione di tutte le sue frammentarie parti. Penso che l’integrazione consista proprio sia nel riconoscere la necessità dello sviluppo di una centralità sia nell’allenamento ad un atteggiamento continuo di inclusività di tutte le nostre parti. Questa prerogativa è essenziale nel nostro percorso di crescita.