Considerazioni in merito al rilascio fasciale
Scritto da Marco Montanari, psicologo psicoterapeuta integrazione posturale.
La mia passione per il lavoro fasciale nasce dal tentativo di risolvere definitivamente le tensioni nel corpo. In dieci anni di lavoro ritengo la risposta ancora incompleta e in via di perfezionamento.
Una cosa è certa, non si può risolvere definitivamente una tensione limitandosi ad applicare una tecnica o un intervento specifico nell’area designata. L’area di tensione non è il focus principale, ma è a sua volta un eco, intenso e recidivo, di una voce che viene da differenti livelli dell’essere umano. Per quanto l’attenzione di un operatore si diriga inizialmente nelle zone tese intervenendo con manipolazioni e manovre specifiche, è facile che il sintomo, o i sintomi, inizialmente scomparsi, si ripresentino non molto tempo dopo, provocando l’instaurarsi, nella maggior parte dei casi, di una relazione di dipendenza tra cliente e terapeuta.
Credo pertanto che ogni professionista che lavora col corpo debba necessariamente munirsi di più strumenti di analisi e intervento, soprattutto quando agisce su un tessuto che, come il connettivo, per sua natura “connette” ogni sistema, e interferisce direttamente o indirettamente col sistema endocrino, nervoso immunitario e respiratorio.
Non sarebbe sbagliato considerare una restrizione fasciale o uno sbilanciamento posturale espressione di traumi nel nostro organismo. Spesso si parla di trauma o abuso solo in presenza di impatti eclatanti, in realtà la gamma delle influenze che collidono in modo traumatico sulla persona è molto più ampia e vasta di quanto si creda. La ripetuta pressione di ambienti stressanti o di situazioni invalidanti aumenta in maniera esponenziale l’azione sui nostri limiti provocandoci vulnerabilità e turbamenti. La nostra struttura fasciale risente di ogni esperienza eccessiva che non siamo in grado di riconoscere ed elaborare, la cui memoria viene “incistata” in una sorta di ricordo corporeo. Anche se è importante riconoscere le sfumature che differenziano i disagi leggeri dai traumi invalidanti, ogni terapeuta mirerà ad utilizzare le sue conoscenza per accedere proprio a tale materiale “incistato”.
In questo l’integrazione fasciale si propone di mettere insieme le più appropriate tecniche per risolvere completamente la tensione. È da considerarsi cruciale il primo momento dell’incontro terapeutico. È il cliente ad acconsentire all’operatore di “entrare” nelle fasce muscolari permettendogli di svolgere appieno il suo lavoro, e per farlo deve potersi fidare.
La posizione supina già di per se costituisce uno stato che favorisce la regressione. Non a caso è adottata in analisi con l’utilizzo del “lettino freudiano” che è un invito lecito a lasciarsi andare alle sensazioni più viscerali.
Possiamo conseguentemente pensare quanto sia influente a questo punto la presenza umana nel lavoro. Ancor prima delle manovre vere e proprie l’intervento fasciale è un incontro tra due anime, l’influsso del terapeuta e la sua partecipazione saranno elementi chiave per il potenziamento della tecnica e la sua efficacia.
Anche l’intensificazione della respirazione e del contatto nei primi momenti della seduta diventano chiavi delicate del processo. Il cliente valuta qui la professionalità e la sicurezza di chi si occupa di lui, il suo tocco e la precisione con cui entra nei tessuti.
Fisicamente il cambiamento nel connettivo avviene già attraverso una pressione leggermente più forte di quella che provocherebbe il peso di una piuma, ma l’intervento sulle fasce va ben oltre ed è molto più incisivo. È facile quindi che provochi un “effetto invadenza”.
Soprattutto per quelle aree corporee che sono già state soggette a traumi e indiscrezioni.
I recettori peptidici negli organi e nei tessuti attivandosi risvegliano alcuni sintomi traumatici senza poter riconoscere nell’immediato il collegamento con gli eventi corrispondenti. Ci si potrebbe quindi ritrovare immersi in un senso di disagio, vergogna o fragilità senza sapere bene il perché e con una conseguente reazione nei confronti dell’operatore e di quello che sta facendo. Molti rapporti terapeutici sono minacciati dalla mancanza di sensibilità a questi fenomeni. Ogni trauma per sua natura crea una disconnessione tra i circuiti ippocampali del cervello e quelli dell’amigdala producendo un isolamento, una scissione della memoria dagli eventi accaduti. È quello che succede ad esempio alle donne dopo il parto, la gioia della nascita allontana velocemente lo shock delle lesioni e dell’esperienza violenta, anche se spesso ritorna sotto forma di frammenti.
Il lavoro fasciale può riattivare indizi di eventi rimossi senza ricondurli immediatamente alle loro cause, si possono quindi avvertire reazioni, scatti, vibrazioni e dolori estranei e non riconoscibili. Uno dei pensieri più comuni è: “Ciò che sta avvenendo nel corpo non lo avverto come mio”.
Maggiori sono i blocchi e le dissociazioni maggiore è il limite che subisce la nostra struttura di contenere circoscrivere, elaborare e discioglie i fenomeni.
La mancanza della facoltà di “pensare col corpo” di riconoscere i feedback e tutte le comunicazioni periferiche che attraverso il talamo arrivano alla corteccia celebrale, è un limite da colmare attraverso il lavoro fasciale. Il lavoro scioglie e destruttura le corazze con le manovre, ma serve inoltre la presenza dell’operatore in grado di integrare e contenere quello che accade.
In definitiva l’abilità di risolvere una tensione è proporzionale a quanto si riesce ad evitare di indurre nuovamente allarmi traumatici nel corpo, ammorbidendo i tessuti senza risvegliare posizioni di passività rispetto a qualcosa di sopraffacente.
L’attenzione va diretta soprattutto a quelle personalità molto mentali, abituate a stabilire un controllo su tutto, e quindi anche sui sensi. Può accadere che al minimo contatto scattino convulsivamente. Si tratta generalmente si strutture magre, longilinee, che presentano muscolature tese e nervose, insieme a tessuti fragili e poco tonici. Una tonicità tuttavia acquisibile nel tempo proprio attraverso il lavoro sui tessuti.
Certi scatti convulsivi sono provocati dall’attivazione dei potenziali d’azione delle membrane, più sensibili e reattive quanto più è stato il senso di estraneità al contatto. Diventa fondamentale l’intervento prudente dell’operatore, la sua rassicurazione, la sua presenza, lo scrupolo del contatto oculare e l’accompagnamento attento in ogni passaggio.
A volte si chiede un auto contenimento ai clienti stessi, invitandoli a ritagliarsi uno spazio subito dopo la seduta per restare in contatto con quello che è avvenuto, non è raro l’uso della scrittura o del diario delle sedute. Quando una tensione ritorna un motivo può essere dato dal fatto di non aver avuto il tempo e lo spazio di elaborare i contenuti dell’incontro. Paradossalmente senza questo spazio di “decompressione” i tessuti possono tendere a richiudersi in una nuova difesa.
Tutto il lavoro fasciale si gioca in certi casi proprio su questo sottile filo tra dolore e piacere, rilascio e ritiro, liberazione e protezione.
Ciò che conta in questi casi è che la persona alla fine di un incontro di integrazione fasciale ritrovi un maggiore contatto con se stessa, si senta più piena, viva, aperta, e si riappropri di quelle parti che non percepiva in precedenza.
Un’attivazione che inizia dall’interazione durante le manovre quando si contrae e si rilascia il muscolo facilitando la padronanza con l’arto interessato e aumentando le possibilità di abbandono ad un lavoro più profondo con controllo.
Ogni azione su una tensione comporta la paura di sentire dolore, e solo il contenimento che segue le manovre favorisce la dissipazione di tali paure.
Non c’è una sicurezza di efficacia immediata. Alcune persone riportano modifiche alla loro struttura anche dopo diversi giorni, indice che il lavoro ha “covato” dentro per parecchio tempo. Si può ad esempio avvertire un’apertura del petto o un maggiore nutrimento e contatto con le proprie gambe anche in un periodo successivo. Il torace può risultare più espanso, i glutei sciolti e il collo più longilineo.
È lecito allora chiedersi quando avviene una piena integrazione e forse si può banalmente dire che avviene nel momento in cui il dolore corporeo diventa anche un dolore nostalgico, un dolore di accoglienza. Quando parti di noi che non sentivamo possono ritornare nell’insieme, quando ci ricongiungiamo a qualcosa che si era momentaneamente perso e allontanato.
Concludo dicendo che non va tralasciata l’importanza delle manovre specifiche e delle tecniche, ma in aggiunta ad esse l’integrazione fasciale vuole appropriarsi di quell’insieme di conoscenze che permettano di risolvere in via definitiva le restrizioni dei tessuti.