Affrontare il dolore e la sofferenza
La persecuzione non causa sofferenza all’uomo giusto, né l’oppressione lo distrugge se egli è schierato dalla parte sana della verità. Socrate sorrideva prendendo il veleno, e Stefano sorrideva mentre veniva lapidato. Ciò che realmente fa soffrire è la nostra coscienza, che duole nell’essere contrariata e muore nell’essere tradita”. Kahlil Gibran.
Se diamo uno sguardo ai momenti difficili, tante sono le occasioni nelle quali dolore e sofferenza ci hanno portato ad arretrare o addirittura a rinunciare ai nostri più profondi sogni e alle più segrete aspirazioni.
Se il dolore è fisico la sofferenza è più psicologica. Sotto effetto del dolore e della sofferenza la vita si chiude ad ogni stimolo, diventa come una stanza occupata e claustrofobica, come una palude che ci ingloba sommergendo e rallentando tutto. L’urlo della sofferenza ha il sapore della pietra dura e, a volte, la consistenza di un volo nel vuoto. Spesso si ha l’impressione di essere braccati, prede di un destino avverso o condannati da un torturatore che ha preso di mira proprio noi, e agisce da chissà quale luogo e chissà per quale motivo. Il dolore non è sempre manifesto, può essere anche in forma latente. Quando è in uno stato latente, lo possiamo paragonare ad un ospite indesiderato da tenere d’occhio e da “afferrare” nel momento in cui appare. La nostra “arma” consiste nella vigile attenzione verso qualsiasi segno di infelicità, irritazione, impazienza e nervosismo, traccie energetiche che odorano della vicinanza imminente del disagio. Non guardando il cielo non ci accorgiamo dell’arrivo di un temporale e lo scroscio di una pioggia improvvisa anticipa la ricerca di riparo, così lo stato di latenza senza essere avvistato da una attenta vigilanza si trasforma in un lampo nello stato manifesto, irrompendo insieme a inattese sorprese. Dalla finestra di casa mia vedo un albero di ciliegio che in Aprile getta i primi fiori bianchi. Con il primo caldo diventa bellissimo, si esprime vivace e puro in mezzo al prato di erba fine.
Questa fioritura in inverno è sostituita da tronchi nudi, lunghi ed umidi. Guardando in con il freddo i rami spogli posso ritrovare dentro di me la lucente immagine dei fiori. Se potessi spingere il fast forward avnzando velocemente il tempo e ritrovandomi appoggiato al davanzale con i capelli un po’ più lunghi a respirare la dolce brezza della primavera, ammirerei il bianco candore del ciliegio. È solo una questione di tempo. La comparsa dei fiori è già nei rami spogli. I fiori sono già li, in uno stato latente.
Nel buddismo del Sutra del Loto l’effetto latente ( nyo ze ka) indica il volto del karma delle azioni compiute nel passato e la direzione che prenderanno al momento attuale. Nichikan Shonin un patriarca buddista scrive: “il fatto che la mente produca felicità o disgrazia dipende dall’averle prodotte in passato. In questo senso, ciò che la mente ha prodotto è la causa interna, ciò che produrrà è l’effetto latente. In realtà entrambi dimorano simultaneamente nella nostra vita”. C’è chi ha una intolleranza estrema al dolore. Toccando il corpo scatta come se si sfregasse sulla pelle viva. La reattività è come quella di un nervo scoperto. Si può dire che quando non c’è una adeguata sopportazione a questi stimoli, manca un contenitore abbastanza capiente in grado di racchiuderli. Il vaso pronto a raccogliere è una delle immagini più simboliche della dottrina taoista: rappresenta la qualità dell’inclusione. Un importante requisito per trasformare il dolore e la sofferenza sta nello sviluppo di un contenitore vasto a sufficienza per far fronte alla ingombranza dei tormenti interni. Non stiamo parlando di un contenitore concreto come può essere una brocca o un’anfora, ma di un atteggiamento verso, una capacità di stare, una attitudine. Anche nella dottrina buddista vengono citati i quattro elementi di aria, acqua, terra e fuoco per indicare le importanti virtù di includere e trasformare. La grandezza della terra accoglie le sostanze immonde e sudice come gli escrementi e le trasforma senza esserne danneggiata. L’acqua è il luogo dove vi possono essere immersi elementi contaminati e inquinanti che vengono ricevuti senza attaccamento, trasformati e mondati. Il fuoco ha la virtù di bruciare, purificare e trasformare ogni cosa. Infine l’aria porta ogni odore, olezzi ed esalazioni cattive, ed ha la dote di trasportarli e dissiparli. Il Budda esortò i suoi discepoli bhikkhu ad essere come il cielo, per metterli in guardia a non farsi turbare dalle offese. Quando qualcuno sputa verso il cielo, lo sputo non rimane attaccato ma ritorna indietro e ricade sulla sua faccia. Mi colpì la descrizione riportata da Ilario assagioli quando ascoltò la risposta di uno Swami indiano su come affrontare attacchi e vincere una eccessiva sensibilità emotiva. Il maestro gli riferì: “…Quando noi ampliamo tanto il nostro amore si da comprendere tutti nell’ambito di esso…”. Un elefante viene accolto diversamente se entra in un piccolo stagno o in un grande lago, nel primo caso solleverà spruzzi di acqua smuovendo fango mentre nel secondo caso non turberà la pacatezza e l’immobilità del bacino che lo ospita. Pertanto il nostro contenitore ampio e vasto come un grande lago, illimitato come il cielo, accogliente come la terra, puro come l’acqua sarà in grado di includere ogni afflizione. Quando usiamo il termine contenitore non ci riferiamo al limitato concetto fisico di contenere, che a volte può essere confuso con l’atteggiamento di sopportare o di farsi carico. La percezione della immensità della nostra vita attraverso virtuose qualità umane quali pazienza, saggezza, forza d’animo e capacità di rinnovamento, dentro ognuno di noi accrescono la facoltà di far fronte agli eventi e di ampliare la capacità di contenerli.
Diversamente accade quando gli ostacoli delle inquietudini soffocano ogni spinta evolutiva ed ogni entusiasmo. Se il piacere porta ad espansione, nei sentimenti, nei contatti e nella condivisione della vitalità, il dolore porta a chiusura. Aumenta la tendenza a scontrarci ad evitare le relazioni o ad essere autodistruttivi. Eppure il dolore è anche un passaggio obbligato per il “ritorno alla vita”. Lowen ha spiegato questo passaggio con chiarezza nell’esempio dell’assideramento. Quando abbiamo un principio di congelamento ce ne accorgiamo solo nel momento che entriamo in un ambiente caldo dove, da una insensibilità precedente, affiora il dolore. In quel momento avviene il supplizio, la pressione del sangue che si fa forza per fluire negli spazi ristretti delle zone congelate e diventa un’insopportabile pena. La linfa vitale e calda del sangue spinge per emergere e portare vita nei freddi e statici lembi del corpo. Concentrandoci sull’invasione lacerante, il fastidio ci blocca, come prigionieri sotto tortura. Nel momento in cui invece la nostra attenzione è posta sulla forza vitale che si fa strada nel corpo siamo spinti a muoverci cercando di favorire questo processo di guarigione. Assecondando il nutrimento con movimenti, accelleriamo il tentativo del sangue di raggiungere tutte quelle estremità ancora non ammorbidite dal suo flusso. L’immagine che abbiamo dato può essere una importante metafora di vita: da che parte stiamo noi nella continua alternanza tra caldo e freddo tra dolore e piacere tra movimento o staticità? A cosa diamo valore? Siamo dalla parte di quel sangue che scorre vigoroso e tempra la materia per farsi spazio con la sua vitalità o siamo fermi in quelle frazioni congelate ed immobili ad aspettare che qualcuno arrivi a portare un po’ di speranza e calore?
Un dolore o una disgrazia mettono sottosopra la vita ordinaria, si è costretti ad affrontare esperienze che mettono a nudo tutte le illusioni, viene svelata in un istante la vanità e la precarietà di tante convinzioni a cui si dava molta importanza. Attraverso questi particolari momenti si è costretti ad attingere ad una forza che talvolta non sapevamo neanche di possedere. Il solo contatto con questa nuova energia giustifica l’apparizione di tanto patimento.
Mi piace a volte vederci tutti come scultori. Ognuno si improvvisa davanti alla propria lastra di marmo. La materia che scolpiamo rappresenta la sofferenza e la difficoltà di forgiarla l’arduo compito di trasformare il disagio. Ho chiesto un giorno ad un amico scultore di scrivermi cosa prova mentre lavora il marmo. “…Le prime volte i cui ho preso in mano lo scalpello ero attento alla pesantezza del ferro, alla intensità del colpo del martello, alle scintille di ogni percossa ed alla corsa delle scheggie dei piccoli frammenti di roccia calcarea che si distribuivano nella stanza. In seguito ho fatto sempre meno attenzione a tutto questo concentrandomi sull’effetto della mia azione sulla pietra. Ho l’impressione che la materia pur essendo così dura si scaldi e si adatti sotto la mia azione, riesco così a forgiarla e a dare vita alle forme che voglio. Col tempo ho sviluppato una attenzione ai particolari sempre più precisa e ad una qualità del taglio sempre più netta. Dalla prima forma grezza lentamente si manifesta con più nitidezza la figura, essa emerge come una apparizione che proviene da mondo indefinito e sommerso. L’informe e indifferenziata massa si plasma e mi sento come un creatore. A volte medito con pazienza e distacco davanti alla figura che sto scolpendo, mi preparo alla prossima azione, al successivo incontro con la materia. Quando risco ad esprimermi veramente sono tutt’uno con ciò che faccio ed entro nello scoplire con intensa concentrazione, più che posso. È per me una emozione ben più intensa di quello che verrà fuori. “. La scultura, come tante altre arti, sono le vie per riuscire ad esprimere un proprio stile, una propria personalità che necessita impetuosamente di emergere. Prendono vita forme stili e concetti ma soprattutto emerge un’anima, le qualità di una persona tramutate in arte. Le sculture futuriste di Umberto Boccioni o i bronzi impressionisti di Degas, l’inconfondibile cubismo sintetico di picasso, sono testimonianze lampanti delle personalità degli artisti.
Un giorno lessi una fiaba che parlava di uno scultore. C’era a fianco di un piccolo villaggio un uomo di nome Babel oramai avanti negli anni, che abitava in una vecchia casa in mezzo al bosco. Ogni giorno dedicava molte ore alla scultura intagliando grandi tronchi di legno. Eppure non si sentiva un artista, denigrava tutto ciò che faceva, considerava in cuor suo quel mestiere inferiore a tante altri. Sin da giovane voleva diventare famoso tra i villaggi della contea e dimostrare a tutti gli abitanti che era un vero artista e che le sue statue avevano il potere di stupire ogni uomo che si fermasse ad ammirarle. Era addolorato, perchè dopo tanti anni non era riuscito ancora a intagliare qualcosa nel legno che fosse degno di lode, che lasciasse a bocca aperta. Nessuno lo aveva mai conosciuto profondamente e si sentiva molto solo. Non si era mai sentito veramente speciale in qualcosa ed aveva cercato di farlo dedicando il suo tempo alla scultura. Una notte, camminando triste nel bosco incontrò la visione di una meravigliosa fata luminosa che espresse il desiderio celato nel profondo suo cuore di diventare un grande scultore. Rientrando rasserenato a casa, Babel, trovò tante statue di legno appena scolpite che erano di una bellezza estrema. Erano davvero incantevoli. Ognuno si sarebbe fermato veramente a guardarle con stupore ed ammirazione, proprio come stava facendo lui in quel momento. Il suo cuore si esaltò all’idea che tutti gli abitanti della contea potessero innamorarsi dei suoi capolavori. Al contempo sentì presto l’esigenza di metterci mano, grattando un po’ qua e la, ritoccando con lo scalpello qualche angolino o smussando qualche espressione. Insomma, Babel non era soddisfatto. C’era qualcosa nel suo comportamento, una inquietudine che non riusciva a placarsi neanche davanti a statue così belle. “Non le ho fatte io!..” si ripeteva tra se e se, “Non rappresentano propro quello che ho dentro!” si rimproverava. Così facendo, Babel finì col rovinare tutti quei capolavori. Allo stesso tempo creò con i suoi interventi delle forme nuove che, a guardarle bene, non disdegnava. Quello fu un momento decisivo per la sua vita di artista, iniziò da allora a capire cosa voleva veramente tirare fuori da quei tronchi di legno. Le sue sculture furono le forme più strane e creative che tutti gli abitanti della contea avessero mai visto. Le sue sculture iniziarono ad adornare le case e gli ambienti pubblici di tutti i villaggi. La voce si sparse. Non c’era un abitante che non abbellisse la sua abitazione con una creazione di Babel, alcune contornavano le porte di entrata, altre salivano lungo le facciate principali altre abbellivano le stanze ed i salotti. Il suo nome correva sulla bocca di tutti, ebbero finalmente di lui grande stima e ammirazione.
Come è successo a Babel, anche per noi non sarebbe una vera felicità se una fatina incontrandoci ci facesse sparire tutte le negatività. Il rapporto con il dolore e le sofferenze, per chi riesce a coglierne l’opportunità, attiva un processo creativo trasformativo che attinge alla più profonda energia del nostro animo. La forza del processo creativo è più importante del risultato finale, perchè il risultato è ciò che rimane fisicamente, ma è la forza stessa a ricordarci in ogni momento chi siamo veramente.
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