Corpo e Trauma: approfondimenti sulla tecnica miofasciale

Scritto dal dott. Marco Montanari Psicologo Psicoterapeuta Integrazione Posturale.

Questo vuole essere un articolo rivolto a chi, direttamente o indirettamente, si dedica o è eccezionalmente interessato al lavoro corporeo. La tecnica di cui parliamo, quella miofasciale, l’ho privilegiata per immediatezza ed efficacia rispetto ad altri modelli da me conosciuti. Ritengo che il lavoro sulle fasce sia essenzialmente un richiamo alla vitalità, un atto di forza in cui terapeuta e paziente aiutano sinergicamente l’anima a ritrovare la sua sede originaria nello scrigno del corpo. Molte volte farò uso del plurale perchè è un’attività interattiva tra chi la infonde e chi la riceve. L’incontro diventa allora una sana occasione per metabolizzare e rendere meno offensivi gli eventi traumatici incistati, più o meno profondamente, in aree corporee specifiche, impedendone la loro corretta funzione.

Accade spesso che sin dal primo momento i pazienti non raccontino nulla della propria storia, ma chiedano solamente di “agire”, nel modo più veloce e risolutivo possibile, sui rapporti incongruenti col corpo. Ben presto mi accorgo che la maggior parte di loro ha alcune zone, come quella del bacino, in un certo senso anestetizzate, sconnesse e spesso scattano involontariamente “muovendosi da sè”, prive di azioni compiute. Altre aree, come il petto, il collo o l’addome, non permettono nessun tipo di movimento forte che aumenti il calore o l’eccitazione locale. In altre parole, è come se ogni volta il lavoro sulle fasce portasse i pazienti davanti a sensazioni talmente forti da indurre spropositate reazioni di stupore o smarrimento. Dopo le sedute, una folla variegata di percezioni sconnesse si presentano anche in momenti diversi della giornata, lasciando spazio ad un senso di ingestibilità, che acuisce sentimenti di vergogna o estraneità nei rapporti.

La relazione col corpo è talmente connessa ad un senso di identità da essere la cartina tornasole rispetto a tutto ciò che avviene nelle relazioni esterne. Una maggiore armonia col proprio corpo sarà, nel contesto, indice di un equilibrata intesa col mondo. Un po’ come nei proverbi cinesi, dove vige il binomio tra ordine interno e ordine esterno. Infatti, come chiaramente emerge nel pentolone alchemico delle sedute, molti pazienti appaiono sospesi, assenti, talvolta irraggiungibili, come se fossero immersi in una profonda palude fatta di atmosfere stagne e prive di gravità. Per tendenza controllano sempre il mio operato, sono sintonizzati su ogni minima variazione del mio stato di coscienza, gli occhi sono vigili come quelli di animaletti impauriti, vogliono sapere angosciosamente se qualcosa non va, se è successo qualcosa o se qualcosa sta per accadere. I traumi profondi acuiscono un senso di allerta all’ambiguità, all’imprevedibilità, soprattutto nei confronti di un terreno impervio e minaccioso, la cui paura è conferma di quanto sia già stato calpestato o subito, in un passato indefinito. Il delicato compito del terapeuta diventa da un lato quello di soddisfare la richiesta di risolvere un problema in modo forte e risoluto, dall’altro quello di rimanere vigile davanti a fenomeni difficilmente controllabili ed arginabili, che, una volta aperto il vaso di pandora, possono facilmente riacutizzare il trauma d’origine. È come essere davanti al detonatore di una bomba senza sicura, il cui bottone potrebbe essere spinto per sbaglio da un momento all’altro. Vorrei quindi sottolineare come, in molti casi, il nucleo del trauma va raggiunto gradualmente, rispettando un’ascesa che attraversa delicati livelli, da quello mentale a quello fisico.

In un territorio straniero è necessaria una mappa ben tracciata per orientarsi, così nell’approccio corporeo ritengo che lo strumento d’eccezione sia fornito dalle linee guida dei diagrammi psicosintetici.

Per capirne l’effetto, pensiamo alla forza che nasce da un pensiero. La sua intensità aumenta proporzionalmente se espresso attraverso un’immagine, un’emozione, o un’azione. Ora, visualizzate un uomo che afferma la semplice frase: ” ci sono!”. E concepitelo mentre si impossessa dell’immagine che più possa rappresentare tutto il suo essere. Un drago giapponese per esempio, o un lottatore di sumo nel momento della vittoria, King Kong mentre sferra un pugno sul tetto di un grattacielo di New York, oppure l’immagine del vento, del sole o dell’ultimo tramonto. Il simbolo figurato è più forte del pensiero, amplifica ed espande l’intenzione, preparando il terreno al passaggio successivo: quello che coinvolge l’emozione. Qual’è l’emozione più incisiva che incarna lo stato del momento? Rabbia, gioia, collera , un motto d’amore? Immaginate quindi un uomo che stringe i pugni, si piega su se stesso, e coinvolgendo il pensiero, l’immagine e l’emozione del momento, con tutto se stesso afferma energicamente: “ci sono!”…”ci sono!”. Siamo nel pieno dell’atto autoaffermativo, quello che include tutti gli strati dell’essere: idea, immagine, emozione, azione.

Avete mai provato ad urlare con tutte le vostre forze al cielo? Avete mai sperimentato la potenza dell’autoaffermazione impressa in un atto simbolico ed eclatante?

Ebbene il passaggio dal nucleo incistato del trauma alla sua espressione libera, attraversa tutte queste tappe.

Un famoso terapeuta un giorno mi disse che per cambiare qualcosa della nostra personalità occorre tracciare un nuovo engramma cerebrale; solo quando esso prenderà il posto del vecchio già esistente, i giochi potranno cambiare. Per capire cos’è un engramma cerebrale potete immaginare un uomo che cammina in un campo di grano pieno di spighe alte e mature, e passa innumerevoli volte sui suoi stessi passi tracciando un sentiero. Un giorno decide di prendere una direzione diversa, abbatte così un muro di alti e inviolati fusti di grano e crea, con forza, un nuovo passaggio. Lo percorre più e più volte, fino a quando i suoi passi non si imprimono risoluti nel terreno. Mentre il vecchio sentiero sparisce quando le spighe costrette a terra dal peso dei passi si rialzano lentamente, il nuovo tracciato di conseguenza diventa sempre più evidente.

Mi sono sempre chiesto quanto tempo ci voglia a cambiare un engramma cerebrale, forse mesi, anni. Mi sono sempre anche chiesto come poter fare per velocizzare questo processo, accorgendomi quanto sia importante, a questo proposito, l’uso del corpo. Il peso specifico di un’idea cambia quando l’idea stessa è espressa da una vigorosa azione, quando s’incarna, quando esce dal midollo facendosi strada e scorrendo nelle vene. Maggiore è la possibilità di vivere nel corpo la forza di una vissuto, maggiore è il solco di un nuovo engramma cerebrale che traccia il binario del cambiamento concreto.

Il corpo quindi va attivato, “risvegliato”. Innumerevoli sono le situazioni che possiedono le qualità per richiamare la vitalità e rinnovare il frizzante entusiasmo dei sensi. Le bolle di un idromassaggio, per esempio, producono questo effetto quando solleticano le corde tese dei muscoli, ci accarezzano, e regalano un piacevole momento di dialogo con sensazioni sopite. Tutto ciò che riesce a farci sentire più vivi aprendoci al mondo, diventa una lecita scoperta. Ma le resistenze intorno a vissuti intensi, sono ben più difficili da arginare, e la vitalità attivata dalla rottura della difesa di un trauma, che è di natura ben poco piacevole, risveglia sovente forti impulsi incontrollabili. Le difese vanno quindi arginate con cura e rispetto.

Talvolta mi accingo a distrarre il paziente da una difesa eccessiva, comportandomi come una mamma che canta una canzoncina dolce al proprio bambino, mentre infila veloce i calzettini nei piccoli piedi che scalpitano. La distrazione deve essere tenera, come quella di un solletico o di piccoli sfioramenti periferici. L’intento è quello di depotenziare l’interesse verso una zona traumatica che è sempre al centro dell’attenzione.

Come insegnano le scoperte di Porges, il nostro sistema nervoso più evoluto attiva la positiva capacità di interazione sociale, mettendo in funzione i nervi cranici periferici, direttamente connessi alle espressioni del volto ed all’interazione verbale. Questa via quindi, va utilizzata in modo privilegiato nell’espressione dei conflitti emergenti. Pertanto la risoluzione di un trauma forte richiede, oltre al rispetto di tutti i passaggi sopra citati, un terapeuta abile a comunicare, che sia dolce e moderato, e aiuti il paziente ad uscire dall’immobilità del shock, attraverso la stimolazione del sistema vagale più recente.

Bibliografia: Maurizio Stupiggia, Il corpo violato, Edizioni meridiana.

Porges S.W. Orienting in a defensive world: Mammalian modifications of our evolutionary heritage. A Polyvagal Theory.

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